L’incontro con l’opera letteraria di Giuseppe O. Longo è stato l’inizio di una bella amicizia. Quando nel 1995 lessi casualmente il suo secondo romanzo, L’Acrobata, uscito con Einaudi, quasi posseduto da forza oscura gli scrissi immediatamente e, non pago, andai da lui a Trieste. Non avevo alcuna idea di quali e quante conseguenze avrebbe avuto quell'incontro nella mia vita. Se oggi scrivo è sicuramente grazie a lui. E se ho superato l’angoscia delle lezioni di matematica del liceo è stato grazie a una sua indimenticabile lectio informale regalatami davanti a un fritto di pesce vista mare.

Professore universitario emerito, instancabile traduttore e divulgatore scientifico, epistemologo, scrittore, attore ma soprattutto un grande esempio della bellezza dell’intelligenza umana. Un giorno mi disse: “Scrivere è un gesto di responsabilità. Il valore di uno scritto non ha nulla a che fare con il successo editoriale - cosa che certamente non mi dispiacerebbe - piuttosto catalizza forze e mette in contatto intelligenze che altrimenti non si sarebbero mai incontrate. Oltretutto un libro agisce nel tempo. Se anche un solo lettore, leggendo una frase di un mio romanzo, prendesse una decisione importante e significativa nella propria vita, ciò darebbe senso a tutto il mio lavoro”.

Come è nata la tua scrittura? Un giorno mi hai raccontato dell'immagine (o forse era un sogno?) che è affiorata in te di un tombino che esplode e di una grande massa d'acqua che comincia a uscire inarrestabile...

Per molti anni la mia attività si era svolta nell’ambito delle scienze esatte, ma sentivo con urgenza crescente il bisogno di affrontare quel residuo che la scienza non può, e forse non vuole, affrontare. È un residuo, direi, in cui si annida il “senso”, un quid elusivo, ma che avvertiamo innegabile, un quid che continuiamo a inseguire e che sempre ci sfugge quando ci sembra di essere sul punto di coglierlo. E la nostra ricerca del senso si svolge soprattutto attraverso le storie: dalla nascita alla morte ciascuno di noi non cessa di narrare, narrarsi e farsi narrare delle storie. Gli psicologi parlano di un sé narrativo. Di qui nasce l’inesausta attività letteraria e poetica, prima orale e poi scritta. Capire per via razionale e capire per via narrativa sono due forme diverse e complementari di comprensione. Così, verso la fine degli anni '70, cedetti a quel bisogno e cominciai a scrivere dei racconti: da allora non mi sono più fermato. L’immagine del tombino che esplode e fa erompere una massa d’acqua inarrestabile, immagine che ti è rimasta impressa, mi venne quasi subito: non era né un sogno né un’allucinazione, era una sorta di metafora visiva. Avevo liberato dalle mie profondità psichiche una forza potente, che mi spingeva a scrivere e alla quale non potevo, e non volevo, oppormi.

La tua esperienza di uomo di scienza e di artista. Ragione e visione.

Sono stato sempre attratto dalla conoscenza: le scienze naturali, la vita degli animali e delle piante, la geografia, la storia, la filosofia, la matematica, le lingue vive e morte, la musica e le arti figurative... e la poesia, la letteratura, il teatro. Insomma la cultura nel senso più ampio del termine. E non ho mai trovato contraddizioni tra le varie province della cultura, solo differenze, differenze di temi e di metodi. Le discipline scientifiche cercano la verità, sempre provvisoria, del mondo attraverso la razionalità, l’argomentazione logica, il metodo sperimentale. Anche le discipline cosiddette umanistiche cercano la verità, soprattutto la verità interiore dell’uomo, le sue gioie e i suoi dolori, gli entusiasmi e i timori. Ma la ricerca avviene mediante una logica diversa da quella della ragione. Pascal diceva che “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non comprende” e per seguire le ragioni del cuore bisogna andare oltre lo “spirito di geometria” e affidarsi allo “spirito di finezza”. Montale affermò che nessuno scriverebbe versi se il problema fosse quello di farsi capire. Il problema è di far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano. La conoscenza poetica e narrativa si caratterizza dunque per una protensione oltre le parole, per un corteggiamento assiduo dell’indicibile, l’unica cosa di cui in fondo ci interessa parlare. Voler parlare dell’indicibile sembra assurdo, eppure... La logica della vita non coincide con la logica della razionalità.

Il passaggio al teatro è stata una prosecuzione naturale della ricerca di senso, con una differenza fondamentale rispetto alla narrazione, al racconto o al romanzo: nel teatro vi sono gli attori, con il loro corpo e con tutto ciò che è legato al corpo. Il corpo è il centro, il pilastro, il perno del teatro: con la voce, i movimenti, le espressioni, le posture, il corpo occupa la scena, anzi genera lo spazio della scena. Questo arredo così importante, fondamentale, quasi ingombrante, impone un tipo di scrittura diverso rispetto alla narrazione: per me il passaggio è stato difficile ma gratificante. Comunque si tratta sempre di andare alla ricerca del senso, e in questo sta la continuità della mia ricerca.

Un giorno mi hai detto "ciò che conta è l'incontro con le persone". Nell'epoca della comunicazione veloce, nel tempo dei social tu hai sempre dato valore all'incontro reale, al tempo dell'ascolto, alla curiosità per l'altro e, come direbbe Goethe, all'eterno stupore. Ti piace andare controcorrente o è una urgenza e una necessità di sopravvivenza?

Il nostro cervello ha due modalità di funzionamento, una rapida e una lenta. Quella rapida è più antica, e presiede alle decisioni istintive, irriflesse, riguardanti la sopravvivenza e l’integrità dell’individuo e della specie: fuggire i pericoli, inseguire la preda, trovare la compagna... Nel corso dell’evoluzione è via via maturata la modalità lenta, che ha accompagnato e favorito lo sviluppo della civiltà, la nascita del pensiero simbolico, l’evoluzione dell’arte, della filosofia, della scienza. Insomma la lentezza è necessaria alla riflessione, all’argomentazione, alla maturazione delle idee. Oggi lo sviluppo della tecnologia digitale ha portato, come sottolinei tu, a un’accelerazione incredibile della comunicazione: le macchine sono sempre più veloci, precise e inesorabili e per non farci sopraffare del tutto da questi nostri strumenti, siamo spinti a entrare in competizione con essi, quindi ad accelerare la comunicazione e in genere i nostri processi mentali.

Accade dunque che la modalità lenta viene sopraffatta e quasi soffocata dalla modalità veloce: è un regresso, un ritorno alla preistoria, alle reazioni istintive e irriflesse tipiche di un’umanità primitiva. Vogliamo abbandonarci a questa deriva dettata dai dispositivi sempre più veloci? Oppure vogliamo tentare una resistenza? Io tento di resistere, coltivo le cose belle e inutili, mi piace stare con gli amici, ascoltare le persone e alimentare la mia curiosità. Insomma sto dalla parte di Goethe, e anche di Einstein, che credeva nella meraviglia di fronte a ciò che sta intorno a noi: senza meraviglia non si dà un grande artista e neppure un grande scienziato. Temo però di essere il rappresentate di una specie in via di estinzione... Se volessi sopravvivere mi adeguerei alla velocità: andare controcorrente mi condanna, ma alla mia età credo i giochi ormai siano fatti.

L'evoluzione e in tempi recenti la tecnologia stanno trasformando l'essere umano. Come vedi tu l'Uomo Nuovo che sta prendendo forma e la Donna Nuova che gli corrisponderà?

L’evoluzione culturale è un fenomeno forse poco studiato perché ci si è molto concentrati sull’evoluzione biologica. Eppure, per quanto riguarda l’uomo l’evoluzione biologica si è strettamente intrecciata con quella culturale, e in particolare con quella tecnologica. Si può anzi dire che l’evoluzione tecnologica ha rimesso in moto l’evoluzione biologica, che altrimenti sarebbe ferma o quasi. Qualcuno ha detto che per l’uomo la tecnologia è un destino e in un certo senso è vero: l’uomo ha sempre costruito strumenti per studiare e modificare l’ambiente circostante, ma ciò che forse è sfuggito è la retroazione che gli strumenti esercitano sull’uomo, trasformandolo più o meno profondamente: così Homo sapiens è in realtà Homo technologicus, un ibrido o simbionte di biologia e tecnologia. Oggi questa ibridazione è molto visibile e sempre più lo sarà, conducendo a quello che alcuni chiamano il Post-umano. Questa prospettiva per alcuni è entusiasmante, per altri catastrofica. Certo apre prospettive mai viste per quanto concerne il corpo, il cervello, la psicologia e le capacità cognitive. Si profila l’avvento di un essere nuovo, di una nuova antropologia, di un’umanità senza precedenti, se pure sarà ancora umanità. Come sarà questa umanità? Diceva il grande fisico Niels Bohr: “fare previsioni è difficile, specie sul futuro”. L’unica cosa che posso dire è che molti studiosi e profeti del Post-umano privilegiano il potenziamento delle facoltà cognitive per poter risolvere i grandi problemi della scienza, mentre tengono gli aspetti etici e l’arte in poco conto. E questo mi dispiace molto, perché è come amputarsi di una parte essenziale di sé.

I tuoi racconti sono spesso avvolti in una luce crepuscolare, i personaggi esprimono tutte le contraddizioni, le sofferenze e le difficoltà del vivere. Tu personalmente quando ti relazioni con il pubblico sei ad alto potenziale ironico e autoironico. È ancora possibile ridere oggi? Prova a darmi qualche buon motivo per ridere.

Per ridere in uno scenario come il nostro, segnato dall’irresponsabilità e dalla violenza dell’uomo (faccio un solo esempio: il depauperamento delle risorse del nostro pianeta e la sesta grande estinzione di massa, che sta portando allo sterminio centinaia di migliaia di specie animali e vegetali) per ridere in queste condizioni bisogna essere o incoscienti oppure rassegnati. Non riesco ad essere né incosciente né rassegnato, sono amareggiato: e questo mio profondo dolore impronta di sé gran parte della mia scrittura, un scrittura di sofferenza. Mi si può obiettare che nessuno vorrebbe tornare indietro, in un mondo segnato dalla povertà e dagli stenti. Forse è vero, ma non bisogna confrontare il mondo di oggi con il mondo di ieri. Bisogna confrontare il mondo in cui viviamo con il mondo in cui potremmo vivere se fossimo più saggi e meno avidi.

Poi, quando mi trovo a contatto delle persone reali, senza l’intermediazione della tecnologia, dei giornali e così via, quando riesco a sottrarmi alle notizie dello sfacelo incombente, sento che le persone sono nobili e intelligenti e capaci di elevarsi sopra la bassezza dell’uomo inteso come entità astratta e collettiva: allora sono capace di ironia e soprattutto di autoironia. Poi però penso che le persone che ho la ventura di incontrare sono persone speciali, che mi somigliano (ecco l’autoironia!), con le quali si può ancora ridere dimenticandoci della grande catastrofe che ci tocca vivere. Ma è un riso amaro.

Giuseppe O. Longo nasce a Forlì nel 1941 e vive a Trieste dal 1955. A partire dal 1987 si dedica alla letteratura ed è autore di romanzi, saggi e opere teatrali. È docente per il corso di tecniche di scrittura al Master in Comunicazione della Scienza della SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) di Trieste.