Il Museo Archeologico Nazionale di Parma, che ha sede nel centro storico cittadino all’interno del Palazzo della Pilotta, splendido complesso monumentale simbolo del potere ducale dei Farnese, custodisce la preziosa Tabula alimentaria di Veleia, la più grande e rilevante tavola bronzea della romanità, rinvenuta nel 1747 nel territorio dell’odierno comune piacentino di Lugagnano, sito dell’antica Veleia, oppidum di fondazione romana, città federata nel II secolo a.C., poi colonia di diritto latino nell’89 a.C., elevata al rango di municipium tra il 49 e il 42 a.C. per effetto della Lex Rubria de Gallia Cisalpina.

La tavola si presenta come un imponente corpo rettangolare formato da sei lamine bronzee che occupano uno spazio di grandi dimensioni (1,38 m in altezza e 2,86 m in larghezza) per un peso totale di circa 200 kg; il documento eneo, che reca l’incisione di circa 40.000 lettere, testimonia un’antica forma di “welfare state” praticata durante l’Impero di Traiano (98-117 d.C.), in quanto attesta la presenza di una sorta di assistenzialismo di Stato attuata tramite l’istituzione degli alimenta, operazioni di aiuto e di soccorso economico a favore dei giovani indigenti, fanciulli (pueri) e fanciulle (puellae) appartenenti a famiglie bisognose e prive dei necessari mezzi di sostentamento.

I primi interventi di beneficenza e assistenza sociale furono introdotti probabilmente dall’imperatore Nerva (96-98 d.C.) ma vennero riorganizzati e ampiamente sviluppati soprattutto sotto Traiano, che ne fece un punto centrale della propria immagine politica, come si può rilevare sia dall’iconografia monetale dell’epoca sia dai rilievi dell’arco di Benevento.

L’istituto degli alimenta prevedeva un prestito pubblico che veniva offerto ai proprietari fondiari, dietro garanzia ipotecaria, i cui interessi venivano destinati al mantenimento dei giovani in situazione di difficoltà. L’iniziativa mirava a un duplice scopo: sostenere e rilanciare l’agricoltura dell’Italia settentrionale, in crisi a causa della concorrenza delle altre province imperiali (soprattutto Gallia e Spagna); contrastare la decadenza demografica e assicurare la presenza di future generazioni italiche di soldati e di funzionari amministrativi.

La tabula alimentaria contiene le disposizioni dell’Imperatore (ex indulgentia optimi maximique principis) in merito all’istituzione di un prestito con garanzia fondiaria (obligatio praediorum), che veniva concesso attingendo direttamente al suo patrimonio personale (fiscus). Il prestito, probabilmente a fondo perduto, era suddiviso in due blocchi di obbligazioni: la tavola bronzea descrive ben 51 obbligazioni ipotecarie, di cui 5 risalenti al 101 d.C. per un valore di 72.000 sesterzi e 46 databili tra il 106 e il 114 d.C. per un valore di 1.044.000 sesterzi.

Gli interessi maturati sul prestito, calcolati nella misura del 5% annuo, erano lo strumento attraverso il quale lo Stato romano pagava i sussidi ai giovani di scarse possibilità economiche: tale corrispettivo veniva infatti riversato periodicamente in sede municipale e veniva distribuito in contanti o in natura (frumento) a fanciulli e fanciulle indigenti. Il sussidio spettava a 300 beneficiari minorenni, presumibilmente di età inferiore ai 18 anni se maschi e ai 14 anni se femmine, e corrispondeva all’incirca al minimo vitale, pari a 16 sesterzi mensili per i figli maschi legittimi, 12 sesterzi mensili per le figlie legittime, 12 sesterzi mensili per i figli maschi illegittimi, 10 sesterzi mensili per le figlie illegittime.

Potevano accedere al prestito fondiario i proprietari veleiati e quelli delle città limitrofe rientranti nell’area territoriale del municipium amministrativo di Veleia, quali Piacenza, Parma, Lucca; l’ammontare del prestito era distribuito in proporzione ai possedimenti ed era pari generalmente a circa l’8% (o al massimo al 10%) del valore dei fondi presentati in garanzia. Il documento epigrafico della tavola riporta l’elenco dei proprietari secondo uno schema regolare: per ogni obbligazione, viene indicato il nome del contraente che riceveva il prestito, il nome dell’eventuale intermediario incaricato della dichiarazione (descriptio), la stima delle proprietà date in garanzia (aestimatio) e la somma corrisposta dall’amministrazione per conto dell’Imperatore, il nome del fondo ipotecato (vocabulum), almeno due proprietà confinanti, la destinazione del suolo, le eventuali pertinenze, la localizzazione topografica.

Il prestito ipotecario era di norma perpetuo e, pertanto, si estendeva anche agli eredi e agli altri aventi causa dal proprietario fondiario obbligato quale primo debitore, e ciò al fine di assicurare alle amministrazioni municipali coinvolte nel programma alimentare un’entrata tendenzialmente stabile e a tempo indeterminato da destinare agli alimenta imperiali. Le ipoteche irredimibili venivano costituite in genere solo su alcuni praedia, frazioni del patrimonio immobiliare oscillanti tra il 10% e il 25%.

Il tasso di interesse previsto, pari al 5% del prestito erogato dal fisco imperiale, si configurava come un onere perpetuo, gravante sul fondo indefinitamente, nonostante i passaggi di proprietà eventualmente avvenuti nel corso del tempo inter vivos o mortis causa, ma veniva probabilmente accettato di buon grado dai proprietari fondiari: il debito da usurae, infatti, risultava modico (5% annuo) rispetto al tasso corrente sul mercato (12% annuo) e anche rispetto al valore dei fondi vincolati a garanzia del regolare pagamento della quota interessi (usurae), tenuto conto che la somma ricevuta in prestito per ogni terreno impegnato non poteva superare la decima parte del valore fondiario stimato.

Una proprietà del valore di 10.000 sesterzi poteva ottenere un prestito massimo di 1.000 sesterzi e doveva versare allo Stato soltanto 50 sesterzi all’anno, il 5% del capitale destinato ai sussidi alimentari. In caso di mancato pagamento delle usurae (ipotesi in genere poco probabile, alla luce dell’esiguità del debito in rapporto alla situazione patrimoniale del proprietario obbligato), l’inadempimento veniva sanzionato di norma con la confisca delle specifiche unità fondiarie vincolate a garanzia e non con l’esecuzione forzata sul patrimonio del debitore.

Il sistema tecnico-giuridico degli alimenta imperiali, pertanto, consentiva ai proprietari fondiari di accedere a favorevoli condizioni economiche a prestiti irredimibili, per i quali non era formalmente previsto un obbligo di restituzione del capitale, escluso l’onere perpetuo di pagamento delle usurae, al quale si ricollegava il vincolo di garanzia sui fondi finanziati; in tal modo, il gravame imposto non risultava troppo pesante, per non svalutare eccessivamente il valore dei fondi e la loro appetibilità sul mercato, e i proprietari al contempo usufruivano di liquidità a buon mercato da investire in opere di miglioramento fondiario o in nuovi acquisti immobiliari.

La Tabula alimentaria riveste, in definitiva, non solo la funzione di dettagliato catasto dell’Appennino piacentino-parmense durante il Principato, ma anche, e soprattutto, la natura di registro pubblico dove risultano archiviate le ipoteche fondiarie di quanti parteciparono all’operazione finanziaria promossa in due “tranche” (101 e 106-114 d.C.) dall’Imperatore Traiano per garantire, in una sorta di cassa di credito locale, un regolare sussidio alimentare a 300 pueri e puellae poveri dell’agro piacentino, nell’ambito di un programma pubblico di assistenza all’infanzia, giustificato dalla volontà centrale di favorire la crescita demografica, della quale aveva estremo bisogno sia la macchina militare e burocratica sia la produzione agricola italica.