Aristotele era non solo punto di confluenza, ma anche punto dal quale si dipartivano elaborazioni e sviluppi nell'ambito delle tradizioni di scuola che si richiamavano al suo nome. Né Teofrasto né altri successori e seguaci di Aristotele calcarono le orme del maestro sulla strada della sua ardita versione della metafora delle piante come “uomini capovolti” e il silenzio parve cadere sull'esistenza di una loro anima specifica. Queste tuttavia continuarono ad essere studiate sulla sua scia, lungo vie che mostravano il vigore dei suoi strumenti concettuali e la validità del suo modello interpretativo generale.

Con i Peripatetici le piante si affermavano come oggetti di indagine sistematica, diventando emblemi, forse ancor più degli altri esseri viventi, della Madre Comune di tutti, ossia della Natura. I1 loro modo di essere e di vivere, le loro conformazioni, i loro sapori, profumi e colori, i loro fiori e i loro frutti ricevettero attenzione adeguata proprio presso coloro che si richiamavano, più o meno direttamente, ad Aristotele e al suo lavoro di filosofo della natura. I modi nei quali l'eredità aristotelica si era rivolta allo studio delle piante furono recepiti in età ellenistica e romana senza mai dimenticare il grande filosofo di Stagira.

Era nel suo habitat che l'uomo poteva rintracciare alimenti e medicamenti, così come era dal territorio circostante che la città e i suoi abitanti potevano ricavare i loro mezzi di sussistenza. Guardare alle piante dal punto di vista degli uomini significò anche considerarle parti dello spazio ambientale e del territorio in cui essi vivono, operano e edificano le loro città. Forse proprio perché guardava alla natura delle piante e alla nota di verde che esse rappresentano nel paesaggio, Democrito annoverava il verde (chlorón) tra i quattro colori semplici, costitutivi di tutti gli altri. Secondo Teofrasto, questo colore consisteva per Democrito non di figure atomiche determinate come gli altri, ma degli stessi ingredienti di tutta quanta la natura, ossia atomi e vuoto, e non aveva contrari. Forse Democrito intendeva in tal modo evidenziare la particolare aderenza e conformità del verde alla natura dei corpi cui appartiene e la forza incontrastabile con cui si impone alla vista.

Dalle piante Democrito mutuava il nome di alcune tonalità cromatiche, risultanti dall'unione dei colori semplici nelle mescolanze primarie o dall'unione delle combinazioni così ottenute nelle mescolanze secondarie. Così, la mescolanza primaria risultante dall'unione di nero intenso e verde dà luogo alla tonalità che Democrito chiamava isatis, blu di guado o azzurro intenso, dal nome della pianta omonima. Tra le mescolanze secondarie, faceva derivare dal porro (prason) il nome della tonalità del verde detta appunto verde porro (prasinon), risultante dall'unione del blu di guado o del verde con il purpureo. Faceva, invece, derivare dal nome della noce (karyon) la tonalità del color noce (karyinon), altra mescolanza secondaria risultante dall'unione di verde e blu indaco (kyanon). Nei frutti degli alberi, che da principio sono verdi e poi mutano colore a mano a mano che maturano, Democrito avrebbe visto mescolarsi il rosso e il bianco che, togliendo al verde ogni ombra di nero, lo rende 'puro'.

Se da queste riflessioni di Democrito sul verde delle piante in una natura fatta di atomi e vuoto si risale indietro nel tempo, allo sguardo si apre lo scenario dei paesaggi trasfigurati dell'immaginario poetico. Quasi in contrasto con la solare vitalità della verde natura di Democrito, ci viene incontro un paesaggio in cui le piante e il verde fanno da sfondo a figure dell'oltretomba. In un quadro del pittore Polignoto sugli Inferi era tra l'altro raffigurato Orfeo che, seduto su una specie di tumulo, con la mano destra reggeva la cetra e con la sinistra sfiorava i rami di un salice, appoggiandosi ad esso; il bosco sembrava quello di Persefone, dove già Omero diceva crescessero pioppi e salici. La cetra alludeva al leggendario potere del canto di Orfeo di ammaliare uomini e animali e persino di far rotolare giù dalle montagne rocce e alberi. Ma la rappresentazione pittorica dava forse anche espressione figurativa alle antiche leggende sul regno dei morti e sui suoi tratti paesaggistici contrassegnati da piante e alberi sacri al loro culto.