Un talento lucente e sincero, che non ha alcuna reticenza a svelare la sua anima. Ottavia Pojaghi Bettoni è una giovane scrittrice di lucida penna e sogni concreti, che passeggia con eleganza sul confine della parola, permettendosi di eseguire spettacolari acrobazie sul crinale fra tumulti interiori, aneliti e confessioni senza mai vacillare un solo istante.

Cresciuta fra i libri e l'arte, Ottavia ha avuto un rapido passaggio nel mondo della moda ma non ha mai messo in disparte la sua inclinazione più profonda. E mentre è in fase di revisione una sua prima, personale raccolta di poesie, frequenta con profitto la facoltà di lingue e culture per l'editoria presso l'Università degli Studi di Verona, collaborando assiduamente con La città immaginaria, nuova rivista culturale dedita all'arte e alla conoscenza.

Da qualche settimana, invece, è in distribuzione per Arcana Editore Questi i sogni che non fanno svegliare", un approfondimento sull'opera rock che Cristiano De André proporrà dal vivo in questo 2019, tratta dal celeberrimo e avveniristico concept-album che il padre Fabrizio scrisse nel 1973, con la collaborazione di Fabrizio Bentivoglio nella parte testuale e di Nicola Piovani in quella musicale.

Alfredo Franchini, ha rimembrato le vicende di questa apologia nei confronti di un anarchismo consapevole e costruttivo allargando lo sguardo ai nuovi stimoli conferiti a distanza di tempo da Cristiano, la Pojaghi Bettoni, invece, ha scritto una vibrante postfazione, godendo della sua posizione di privilegio, perché esattamente nei giorni in cui De André e Stefano Melone curavano il riarrangiamento del disco, si trovava proprio a stretto contatto con i due artisti. Quale occasione migliore per svelare la sua sensibilità quindi: "La Storia ci insegna - ribadisce con acume - che è difficile guardare a ritroso con la stessa lucidità del presente: e proprio per venire in suo soccorso, l’uomo ha creato l’Arte. La scrittura, la musica aspirano segretamente a questo: lasciare un’impronta. Un’impronta di ciò che attualmente ‘è’, e che, inevitabilmente, un giorno diventerà ‘passato’. L’Arte, si può dire, permette alla Storia di diventare Storia. Quanto potrebbe essere difficile per noi giovani che non l’abbiamo vissuto, capire il ‘68? Quali riferimenti abbiamo? Alcuni giovani sono portatori di una misteriosa memoria genetica: sembrano essere perfettamente coscienti di ciò che accadde e delle realtà che furono messo in gioco. Esiste poi una fascia più ampia che vorrebbe avvicinarcisi. Sentivo profondamente che Storia di un impiegato necessitasse di un linguaggio più chiaro, innanzitutto nei confronti dei miei coetanei: una finestra attraverso la quale vedere il mondo di oggi, con gli occhi di ieri. Quel ieri prezioso, che è stato proprio quel periodo.

Il libro nasce da un’idea tanto sentimentale come questa. Si svilupperà, poi, come uno strumento di sostegno alla comprensione dell’Opera. Alfredo e io abbiamo lavorato a lungo telefonicamente, anche se ci eravamo già conosciuti a Cagliari, anni prima. L’idea è nata in Sardegna. La casa editrice (Arcana, fondata negli anni ’70, a Roma, da Raimondo Biffi e Fernanda Pivano) si è resa molto disponibile per entrambi. Il tour e il libro, seppur per loro natura viaggianti su due binari distinti, si sono sostenuti a vicenda. È stato un bel momento, fermentavano molte idee e in quel processo di riadattamento elaborato da Cristiano e Stefano, io ero lì, ascoltavo e scrivevo. Davo e ricevevo molti consigli. A dire il vero, la realtà di quei testi mi era cara già da quando, in una tournée precedente, seguii lo sviluppo di De André canta De André, volume terzo”.

Gli anni '70, rappresentarono un periodo irripetibile per la vita e i costumi non solo del nostro paese: colpisce l'interesse verso un'atmosfera che, vista la tua giovane età, ti hanno solo potuto raccontare... qual è allora la tua impressione e cosa pensi che manchi ai giorni nostri di quel periodo ruggente?

Di quel periodo credo manchi sostanzialmente il motore. Abbiamo le macchine, ma sono depotenziate. La nostra armatura è la stessa: ci vestiamo alla moda, compriamo beni, indossiamo gioielli. Ma cosa muove i nostri passi? Prima di andare a dormire, sperimentiamo oppure no, la solitudine sana per fare un bilancio della nostra giornata, del nostro divenire? Mi spaventa molto questo ossessivo correre a destra e sinistra, senza però sapere perché e con quale obiettivo. Mi spaventano le persone annoiate. C’è così tanto da fare! Ma parlo di ‘fare’ vero e non del verbo agire. Fare e agire sono due cose profondamente diverse che però molti di noi confondono. Il Mondo è lontano, molto lontano da essere quello che dovrebbe e potrebbe essere, se solo ci fossimo un po’ più impegnati a conoscere la Storia. Non siamo, è evidente, ancora vaccinati e protetti dagli abusi del potere, soprattutto perché non li riconosciamo. Anche questo mi spaventa. Mi rattrista sapere che molti semplicemente non concepiscono ciò che esisteva prima di loro. Sì, è vero, l’atmosfera di quegli anni è proprio quella in cui avrei voluto trovarmi io. Mi manca, ne sento la nostalgia, pur non avendola conosciuta.

Facciamo un passo indietro e dimmi di questa tua dimensione di scrittrice: che rapporto hai con le parole e quando ti sei scoperta tale? Ovvero chi o che cosa ti ha fatto venire voglia di scrivere? Perché non ti sei limitata solo a leggere?

Boileau diceva: “Amate la ragione”, Musset: “Non ragionate!” Ecco, ragionevolmente, sarebbe una scelta decisamente più saggia quella di rimanere lettori. Mi domando ancora spesso quando e come mai, personalmente io abbia scelto di non ragionare… Le parole? Sono la mia fede. Le parole ci permettono di elevarci, di raggiungere lo Stato dell’Io più nobile e autentico: di gran lunga più di quanto non ci venga reso possibile con le azioni. Le parole vanno professate, coltivate: è una religione che contempla solo la pratica. Senza la pratica, le parole non esistono. Ho iniziato ad apprezzare questo meraviglioso mondo che è il linguaggio sin da bambina. Scrivevo molto e leggevo, ancor di più. Poi, crescendo, perché l’adolescenza, si sa, porta confusione, lo avevo un po’ lasciato lì, in disparte. Ma l'interesse c’era, c’è sempre stato. Così ho iniziato a dedicarmici davvero, come ci si dedica alle proprie pulsazioni quando si è agitati, come ci si dedica a un bambino appena nato, al primo fiore di primavera. Mi sono avvicinata alla poesia perché la ritengo la forma d’Arte suprema: breve, concisa, difficile. Criptica, spesso. Eppure, sempre e al di sopra di tutto: immediata. Il nettare dell’intelletto che diventa magia. E per chi non ha tempo, non regala scuse. Si può leggere velocemente. Certo è che assorbirne l’atmosfera, renderla propria e ancor più onorarla, poi, è un’altra cosa… Rifacendomi alle parole di Valéry che definiva Baudelaire “uno scrittore che porta un critico dentro di sé”, mi piace pensare che, come per Baudelaire, a ogni grande amante della parola debba, indispensabilmente, appartenere un grande critico. Essere innanzitutto con se stessi il più spietato, cinico e insaziabile dei critici: requisito scomodo ma indispensabile se si vuole aspirare (quantomeno aspirare!) al senso più nobile della parola.

Quali sono state le tue influenze e ispirazioni e cosa vi hai aggiunto nel tempo?

Svariate e sostanzialmente di deriva poetica. Da Sylvia Plath a Mallarmé, Camus, Baudelaire, Céline, Montale, Ungaretti, Hikmet, Manganelli, Luzi, Pavese, Pasolini. Ma anche autori, autrici più contemporanei e contemporanee come Anna Maria Ortese, Patrizia Cavalli, Livia Chandra Candiani, Marco Luppi e Franco Arminio. Una menzione speciale va anche al cantautorato più nobile: De Gregori, De André, Fossati, Lolli, Gaber, Paolo Conte, Gianmaria Testa… I miei capisaldi. Nel frattempo, ho aggiunto quella che chiamiamo ‘conoscenza’, credo. Ma la dimostrazione di quanto questa ‘conoscenza’ sia fondamentale anche per la scrittura è l’influenza diretta che ha sul mio spirito… Avvengono, infatti, dei profondi mutamenti, ben oltre le semplici reazioni del corpo, ogni qual volta che leggo qualcosa che mi colpisce. Credo che la lettura tracci la mia vita, tanto quanto la traccio io vivendola. Bastano pochi versi e le mie carte cambiano. È per questo che leggiamo: per cercarci, per sentirci un po’ meno estranei, un po’ meno sbagliati. Ritrovare la nostra parte scomoda anche altrove è rassicurante, ci permette di riconoscerla in noi con meno timore. “Fuori dal sigillo della paura ininterrotta non ho altro indizio della mia continuità” diceva Manganelli. Ma la poesia, intesa come senso della vita, è emoderivata, dipendente dal Sé, pertanto non può sfuggire a chi la possiede. La si cerca, infatti, quando la si ha già trovata dentro, quando la si sente, la si vede: quando si vivono tutte le declinazioni della vita, anche i più semplici gesti quotidiani, attraverso di essa.

Sapevi che Georges Simenon temperava tutte le sue matite, prima di iniziare a scrivere, sottoponendo moglie e figli a un controllo medico preventivo alle malattie mentre era al lavoro su Maigret. E per te invece? Come si è evoluto il tuo processo di scrittura negli anni?

Georges Simenon, in tutta evidenza, soffriva di sindrome ossessivo-compulsiva non diagnosticata! Ovviamente scherzo. Mi permetto di dire che un po’ di strane abitudini le conservo gelosamente anche io. Sono un esteta e mi ritengo molto precisa. Ma non in senso astratto, intendo dire che amo le cose belle (che non è propriamente uguale al dire “le cose fatte bene”). Se non sono soddisfatta del risultato calligrafico, in senso estetico appunto, anche di una sola parola, sono capace di gettar via tutto e ricominciare da capo. Ovviamente come ogni buon lettore che si rispetti, non concepisco le copertine piegate, i libri trattati male, i segni scritti a penna. In compenso, se fatte a matita, adoro le annotazioni. Mi domando spesso: quando un giorno saremo dell’altro mondo, cosa comporterà il ritrovare le nostre annotazioni? I libri oramai si sa, con l’avvento della stampa meccanica, hanno perso di pregio. Intendo dire hanno perso di unicità. Le nostre annotazioni, no. È lasciare un segno, anche quello. A meno che nel frattempo non avvenga un secondo Fahrenheit, prima o poi qualcuno le leggerà. E chissà quante verità fino allora ignorate, anche nostro malgrado, scopriranno su di noi…

Qualcuno afferma che si debba creare una sorta di lettore ideale e scrivere avendo in testa proprio lui (o lei). E tu, lo fai? In altre parole, scrivi avendo in testa un preciso lettore, oppure lasci fluire libera la tua ispirazione?

Non ho mai scritto pensando a un destinatario. Salvo, ovviamente, se devo scrivere una lettera. Ma ho notato che è ben più difficile scrivere a ‘qualcuno’ anziché scrivere a ‘tutti’. Proprio perché il ‘qualcuno’ è sinonimo di individualità, di gusti. È difficile adeguarcisi, sapere che piacerà quello che scrivi. Allora per forza di cose ho dovuto trovare una mia soluzione, cioè che è meglio non pensarci: piacerà se piacerà. E se non piacerà, vorrà dire che non è piaciuto. Non che non era valido. Forse, semplicemente, ha peccato di ‘mancata universalità’. Ecco, una parola che adoro: ‘universalità’. Sinonimo di ‘inclusione’. Concepire il tutto, uno; la scrittura: di tutti. E di tutti, un po’ anch’io. È quindi proprio questo, secondo me, il compito di chi scrive: non quello di pensare a un lettore ideale, ma di rendere, quanto più possibile, ideale il suo lavoro.

Preferisci i racconti o i romanzi? Cosa li differenzia e cosa prediligi dei diversi ambiti?

I racconti sono piccole storie brevi, non per questo però più concentrate. Il romanzo, credo, possiede e concede, per sua struttura, una maggiore libertà di espressione. Il racconto subisce il limite dello spazio breve, è confinato. Anche se poi è difficile generalizzare. Forse al concetto di brevità, però, preferisco affiancare la poesia. Non li hai nominati, ma… Se dovessi scegliere, forse, tra tutto (e comunque sempre dopo la poesia) direi che preferisco i saggi. Questo forse perché coincide con ciò che, negli ultimi tempi, leggo maggiormente.

Facciamo un cenno al tuo passato di modella e indossatrice... fino a che punto contavi di svilupparci una carriera?

Fare la modella è stato per me un gioco, per altro nato per caso. Venni fermata a diciassette anni, per strada, da quello che diventò poi il mio manager. Lavorai per diversi anni a Roma. Alcuni progetti erano belli, la moda può vantare, se fatta bene, anche di un’attinenza notevole con l’Arte, basti, infatti, pensare ai suoi mezzi: la fotografia, la cinepresa, il disegno degli abiti stessi… Ricordo in particolare e con molto piacere un’interpretazione moderna de Il Marchese del Grillo affidatami in occasione della 50ma edizione della Mostra dedicata al Cinema e curata dai ragazzi dello IED. Indossavo un abito meraviglioso, di Gattinoni, antico. Di grandissimo pregio. Si lavorava in aperta campagna, al lago di Bracciano. Lo scenario era surreale. Ecco, in questo caso: sì, ho amato la moda. Ma l'ho considerata sempre più come un divertimento che non un obbiettivo vero e proprio. Grazie a lei, comunque, ho creato anche importanti amicizie. Una di queste è Simone Passeri, fotografo eccelso e tutt’oggi grande amico. Trasferitami a Milano per un periodo, sono poi entrata a far parte dell’agenzia Caremoli Ruggeri, per la quale ancora lavoro.

Cosa ti appassiona nella vita e cosa invece non tolleri nei rapporti umani?

Amo la Bellezza. Amo il pregio di poter vivere nella Bellezza (che non va intesa per forza in senso materiale). Dedicarsi a una passeggiata nel verde, alla scoperta di un monumento, a una buona lettura, all’ascolto di un album che mi è caro o che mi viene suggerito, alla buona cucina. Al mio gatto, Dylan. Amo i suoi grandi occhi verdi e il suo profumo di buono. Buono, come lui: di chi non capisce che ci fa tutta questa umanità a volersi del male. Ecco, questo non tollero: la malvagità, la brutalità, la violenza. La strumentalizzazione. L’ignoranza (e non solo) di chi crede ancora nel conflitto, malgrado tutto quello che, purtroppo, la Storia ci ha insegnato. L’insensibilità. Diffido dai terreni aridi. Un po’ più di acqua non farebbe male a nessuno. Le nostre radici del resto, dovremmo ricordarcelo, non sono mai profonde abbastanza…

A metà degli anni '70 qualche critico autorevole vaticinava che il futuro della poesia risiedesse nelle canzoni... esagerazione o promessa mantenuta?

Idealisticamente, vorrei dire di sì: la canzone è e dovrebbe essere amica della poesia. La realtà attuale è però ben diversa. Il cantautorato, lo sappiamo, era allora musica popolare. La musica popolare, oggi, risiede all’opposto: a favore del consumismo, che ci ha distrutti, si è persa infatti, tra le tante cose, anche l’Estetica del suono e del linguaggio. Il cantautorato è diventato ‘cosa di nicchia’. Come direbbe Giacomo Papi: “Il primo lo uccisero a bastonate perché aveva nominato Spinoza durante un talk show”. Io credo che invece senza Spinoza e senza De Gregori, De André, Fossati, semplicemente non ci si dovrebbe concedere di leggere o ascoltare altro. Spererei in un ritorno di fiamma: finalmente la Poesia che attrae! Sarebbe un sogno. Che poi, a leggerla, non si impiega certo più tempo di un libro di Ken Follett… Per la musica, invece, sono più pessimista. Se il mondo gira come gira, la musica è declassificata a mero prodotto di omologazione. Esiste un vero e proprio catalogo, oramai. E se al suo interno non si trova il proprio posto, se non si è aderenti al gusto comune, difficile che ci si fidi. Il coraggio che c’era nel credere in un Artista, nel rischiare, anticipando anche cifre importanti (che poi è quello che faceva la differenza tra un produttore bravo e uno meno bravo) ora non esiste più. Il coraggio è la parola che più mi è a cuore quando si parla di poesia e di canzoni. Ci vuole coraggio per crearle, ci vuole coraggio per dargli credito. E ancor prima ci vuole coraggio per leggerle, ascoltarle davvero. In tutta evidenza, il tempo del coraggio, ancora non è arrivato.

Ritorniamo su Fabrizio De Andrè: nelle parole di chi te lo ha descritto, nelle sue canzoni o nei suoi scritti, come si è delineata nella tua immaginazione la sua figura e secondo te su quali tematiche avrebbe ulteriormente sviluppato la sua espressività?

Credo che Fabrizio fosse innanzitutto un grande idealista. Dietro le grandi rabbie si nascondono grandi delusioni, e di delusioni, nel mondo, Fabrizio ne subiva tante. Utilizzo il termine ‘subiva’ perché credo che quando ci sia un livello di interconnessione tale tra l’Io profondo e il Mondo, che ciò che è esterno e ciò che è interno si fonde, cancella le distanze. Tutto è vissuto in prima persona. Il Mondo era dentro Fabrizio, e Fabrizio si sentiva parte del Mondo. Credo, quindi, in una sensibilità fuori dal comune, superiore, quasi una sorta di veggenza, per certi aspetti anche difficile da gestire. La sua espressività nasce tutta da qui. Oggi, studiandone i testi, vedo di lui l’impegno, l’ossessione positiva che manca alla nostra generazione. Lo vedo portatore di un virus buono: quello della conoscenza e dell’inevitabilità dell’amore per lo studio. Del dono della scrittura utile. Utile, perché ‘motore’ di miglioramento, viscerale, portatrice di segnali veri, impossibili da ignorare. Un vero concentrato d’Illuminismo. Sicuramente, in questo senso, le questioni sociali gli appartenevano più di altre. Immagino, con lo scorrere degli anni, che dal suo naturale e motivato disincanto sarebbe però nata anche una forma di nostalgia. Un ritorno all’essenzialità: so che Fabrizio era molto legato agli aspetti della vita contadina, del contatto genuino con la terra, e perciò ai ricordi dei suoi primi anni, nella Cascina dell’Orto, a Revignano d’Asti. Di queste stesse emozioni che la terra ci indica, avrebbe, credo, con il tempo goduto di più. So che, dopo Anime salve, avrebbe lavorato molto ancora anche con Cristiano. Credo, ad ogni modo, che lasciare l’impellenza delle parole non sarebbe mai rientrato nei suoi piani, e avrebbe perciò, forse anche sperimentando, continuato a dare al mondo la sua innata voce di libertà.

Ultima considerazione su sogni nel cassetto e progetti imminenti o futuri...

Sono orgogliosissima dell’ultimo progetto coltivato e finalmente venuto alla luce il 15 aprile di quest’anno: La città immaginaria. Una città utopica, dove caos, territorialità e intolleranza non hanno spazio. Dove la politica non può entrare, e nemmeno la cronaca. Siamo tutti giovani. Per ora, una ventina. Ma credo cresceremo in fretta. I caporedattori, Valerio Dardanelli e Ginevra Latini hanno saputo creare un’oasi di pace, dove cultura e bellezza regnano finalmente sovrane. Ma non ci si ferma mai, perché c’è tanto (non troppo, tanto!) da fare. E va fatto. Non è più possibile delegare agli altri, ciò che possiamo fare noi.