Nascono alcuni al soave diletto.
Nascono alcuni ad infinita notte.

(William Blake)

Nel suo Simposio, Platone fa raccontare ad Aristofane il “Mito dell’amore”. Un tempo, egli dice, gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non vi era la distinzione tra uomini e donne.

Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due separandoli, da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, solo trovando la quale torna all’antica perfezione”.

Da allora gli esseri umani hanno celebrato, più o meno consapevolmente e nella misura di cui ognuno era capace, questo famoso Mito che adombra comunque un che di incompiuto, di inadeguato che ogni essere umano, maschio o femmina che sia, reca con sé quasi per decreto divino.

Forse è per questo motivo che non mi hanno mai coinvolto né tantomeno affascinato le storie d’amore tinte di rosa, quelle a lieto fine dove tutti vissero per sempre felici e contenti.

Invece ho sempre provato una grande attrazione per le storie disperate dove questa ricomposizione non avviene mai, soprattutto negli individui migliori, quelli più interessanti, complessi e profondi per quel che di folle e distruttivo proprio essi inesorabilmente recano in sé, come un marchio indelebile.

Dalla sofferenza di tale condizione, infatti, scaturisce spesso l’arte più sublime.

Una protagonista di questa liturgia dell’eros è la poesia d’amore, che, come l’amore, non è mai uguale a se stessa ma può cantare la felicità e l’appagamento quando il sentimento è ricambiato come gli abissi della disperazione più cupa se il cuore rimane ferito dalla perdita dell’oggetto amato. Chi vuole il canto dell’eros appagato si sazierà magari dei versi di Neruda, ma chi cerca conforto nel dolore dell’abbandono e vuole ascoltare il canto di un solitario assetato d’amore, dovrà rivolgersi alla poesia di Dino Campana da Marradi.

Questo disperato Zarathustra errabondo nacque nel 1885 in quel piccolo paese tra le montagne in provincia di Firenze e portò la prima e purtroppo unica versione della sua raccolta di poesie, intitolata Il più lungo giorno, alla redazione di Lacerba, a Giovanni Papini che non la guardò nemmeno, la diede al suo amico e cofondatore della rivista futurista Ardengo Soffici, il quale la gettò tra le carte del suo studio dove presto la dimenticò e dove è stata ritrovata solo sessanta anni dopo alla sua morte.

Folle di rabbia Campana ricompose a memoria il manoscritto e riuscì pubblicarlo a sue spese con il titolo Canti Orfici e come tale è giunto fino a noi.

In esso sono contenute alcune delle più belle e struggenti poesie d’amore che io abbia avuto occasione di leggere come Donna genovese probabilmente dedicata ad una prostituta o In un momento sono sfiorite le rose dedicata a Sibilla Aleramo con cui visse una pazza e disperata relazione di cui lei scrisse: “Mi ama: con la passione di un fanciullo, d’un selvaggio, e, ahimè, di un pazzo. Ed è una cosa divina e sacra”.

Divino e sacro e folle. Questo è per alcuni l’amore.

E se alcuni esprimono il loro modo di viverlo con la sofferenza che inesorabilmente reca con sé attraverso la poesia, altri come Beethoven, fanno della loro stessa esistenza un altare su cui sacrificare l’amore annientandolo, dopo averlo ottenuto, pur avendolo disperatamente cercato per tutta la vita.

Tutti conoscono l’Immortale Amata, la misteriosa donna amata dal grande compositore ma pochi sanno come si siano effettivamente svolti i rapporti tra i due amanti, perché di amanti si tratta.

Uno dei più autorevoli biografi del grande compositore, Maynard Solomon, musicologo e psicanalista americano, nel suo celebre testo Beethoven, la vita, l’opera, il romanzo familiare affronta con la pazienza di un detective il mistero dell’Immortale Amata arrivando a svelarne con certezza l’identità e a chiarire finalmente la natura del loro rapporto.

In precedenza l’artista era stato sempre più o meno esplicitamente respinto dalle donne che di volta in volta corteggiava, oppure si era ritirato aspettandosi un rifiuto che forse, come vedremo, non sarebbe giunto del tutto sgradito.

Così era successo con Magdalena Willmann, con Giulietta Guicciardi, con Marie Bigot e con Therese Malfatti. Bettina Brentano aveva fatto la civettuola, dando adito alle sue speranze, senza rivelargli di essere promessa ad Achim von Brentano, e così via di rifiuto in rifiuto.

Da buon psicanalista Solomon scrive: “Nessun amante può essere tanto sistematicamente respinto senza avere in qualche modo contribuito a questo processo e senza averne effettivamente facilitato i risultati negativi, inconsciamente desiderati”. Beethoven aveva infatti un atteggiamento ambiguo nei confronti della vita coniugale, da un lato desiderata ardentemente da un altro temuta per inibizioni relative al fatto di assumere il ruolo del capofamiglia.

Con Antonie Brentano, l’Immortale Amata, le cose andarono diversamente.

Inizialmente il compositore non considerò questa relazione diversamente dalle precedenti, aveva in effetti scarsissime chances: lei era nobile lui no e Beethoven era intimo amico di suo marito, insomma egli, come sempre, sembrava avere posto accuratamente tutte le premesse per il solito amore impossibile.

Egli la consolava nei lunghi periodi in cui Antonie era malata di malinconia o di solitudine e non a caso rimarcava spesso l’ineluttabilità della loro situazione.

Tuttavia ad un certo punto le cose cambiarono.

Secondo le meticolose indagini svolte sugli epistolari Beethoveniani da Solomon, fu nel luglio del 1812 che Antonie, nel frattempo innamoratasi del compositore, cominciò a ventilare che le condizioni della loro vita sociale non erano un ostacolo insormontabile alla loro unione, finché non dichiarò apertamente a Beethoven che era disposta a lasciare il marito per amore di lui.

Scrive Solomon: “La relazione con l’Immortale Amata rivestiva un significato miracoloso, perché Antonie Brentano era la prima donna che lo accettava pienamente come uomo, la prima che gli diceva di amarlo senza alcuna riserva”.

Una donna gli aveva finalmente concesso il suo amore fino al punto di sfidare le radicate convenzioni sociali pur di vivere con lui. Il sogno di una vita stava dunque per realizzarsi e vi era la concreta possibilità di trasformarlo in realtà.

L’amore ricambiato per Antonie, perché di vero amore si trattava, cozzava tuttavia contro schemi e abitudini talmente radicate e soprattutto contro una costituzione psichica di titanismo solitario che intrideva talmente la personalità di Beethoven da portarlo a rifiutare questo miracolo dopo averlo ardentemente cercato per tutta la vita. La famosa lettera all’Immortale Amata ha tutta la tragica forza di una poderosa intima lotta tra accettazione e rinuncia e alla fine fu quest’ultima a vincere.

La prostrazione di Beethoven dopo un simile conflitto fu profonda e si trasformò ben presto in disperazione. Fu in quel periodo che l’artista cercò di togliersi la vita.

Scrive Schindler, altro autorevole biografo del compositore più volte citato da Solomon, che: “Nella sua disperazione cercò conforto presso la sua fida amica contessa Marie Erdody, nella sua residenza di campagna a Jedlersee [...]. Da lì tuttavia scomparve, e la contessa pensava che egli avesse fatto ritorno a Vienna, quando, tre giorni dopo, il suo maestro di musica, Brauchle, lo scoprì in un remoto recesso dei giardini del palazzo. L’infelice aveva avuto l’intenzione di lasciarsi morire di fame”.

Alla fine di questa affascinante e grottesca carrellata di amori folli voglio chiudere con l’amore più pazzo e disperato di tutti perché disperatamente pazzo ma irresistibile come il Maelstrom è l’oggetto di tanta passione: il conradiano Kurtz e le sue due regine, quella color ebano, superba e selvaggia, che lo richiama a sé dal cuore di tenebra in cui era precipitato dopo aver guardato troppo a fondo nella sua vuota anima e l’altra pallida regina, la fidanzata color avorio, lasciata in patria che lo amava tanto per la sua “bontà”.

E infine, a suggellare la atroce follia su cui a volte si fonda l’amore, la formidabile chiusa del racconto, con le parole di Marlowe, io narrante di Cuore di Tenebra, quando, durante la visita di cortesia, riferisce alla fidanzata del signor Kurtz, la regina pallida, che gli chiede tra le lacrime le ultime parole pronunciate dal “suo” Kurtz prima di morire per aver qualcosa “di cui vivere” e Marlowe, pietrificato, che le mente dicendole che era morto pronunciando il nome di lei mentre invece l’ultimo sussurro del suo cuore nero, prima di sparire nella tenebra, in realtà fu “l’orrore!, l’orrore!”.