Ὃν οἱ θεοὶ φιλοῦσιν, ἀποθνὴσκει νέος

Il sarcofago romano di Elio Sabino, giovane patrizio tortonese del III secolo d.C. fu ritrovato nel 1598 nell’area dell’antica abbazia benedettina di San Marziano; fu inizialmente ospitato all’interno della Cattedrale di Tortona e nel 1904 fu concesso in deposito dalla Diocesi al Museo Civico di Tortona nella sede di Palazzo Guidobono dove ancora, al piano terra, si può ammirare.

Ritenuto da uno storico locale, Antonio Bottazzi, uno dei primi monumenti sepolcrali cristiani, appena post-costantiniani, citato anche dal grande erudito Louis Charbonneau-Lassay quale esempio di arte cristiana, fu nella seconda metà del Novecento definitivamente archiviato quale sepolcro romano pre-cristiano, facendo leva specialmente su un dettaglio scolpito, e successivamente in parte abraso: una Leda congiunta al cigno come nel celebre episodio del mito greco.

Ecco di fronte a noi l’ambiguità massima del segno, del simbolo, dell’immagine. Chi è quel giovane che suona il flauto, scolpito anche mentre porta una pecora sulle spalle: Hermes o Cristo? E quel vaso da cui esce rigogliosa una vite è segno eucaristico o allusione a Dioniso? E anche fosse opera pre-cristiana perché Leda con il cigno ritratta in una tomba?

Difficile dare una risposta univoca e certa ma proviamo a rileggere il Mito nell’iconografia funeraria antica per provare a sciogliere questa persistente ambiguità semantica. Che la vite sia attributo di Dioniso e che tale nume possa comparire in ambito funerario non appaia così scontato. Se Eraclito e Platone considerano Dioniso alter ego di Ade non è così facile la sua presenza nell’arte funeraria romana, più sobria e laconica di quella greca. Al contrario il tema di un recipiente da cui esce un vegetale di prodigioso sviluppo appare filo rosso dell’arte paleocristiana come il bellissimo mosaico dell’abside di San Clemente dimostra. Le piante di Dioniso sono poi più l’edera e il pino che la vite e non è la vite in primo piano ad essere associata alla crescita prodigiosa che il mito narra Dioniso abbia prodotto nella sua spedizione contro gli Indiani (Nonno di Panopoli, Le Dionisiache) o per difendersi dai pirati (Inno omerico).

Se Dioniso va citato l’arte funeraria romana lo fa capire. Il vaso con vite rigogliosa del nostro sepolcro appare immagine eccessivamente indeterminata per essere spiegabile in termini di iconografia pre-cristiana, mentre potrebbe essere espressione di un’iconografia cristiana in formazione, nelle sue prime timide origini, come appare nei sepolcri di Elena e di Costantina (Musei Vaticani).

Un conto è il tema letterario, un’altra dimensione spetta invece all’iconografia funeraria. Simile ragionamento occorre fare per il pastore con la pecora sulle spalle e il flauto in bocca. Immagine che ricorre pure nell’iconografia di Hermes nomios e Hermes crioforo ma non nell’arte funeraria antica, dove Hermes viene coinvolto solo quale Hermes psicopompo, con l’evidente elmo alato o caduceo serpentino. L’Hermes pastorale poi o suona il flauto o porta l’ariete/pecora sulle spalle. Qui invece abbiamo stranamente entrambe i motivi incrociati e non vi è traccia di allusione funeraria-sacrificale.

Né può trattarsi di Orfeo, anch’esso comunque utilizzato per accogliere la nuova iconografia cristica, come con Hermes, in quanto ne mancano i tipici attributi: la cetra e gli animali selvatici attorno. Un tema apparentemente del tutto pastorale non è spiegabile nell’arte funeraria pre-cristiana in quanto si tratterebbe di immagine da considerare romanamente eccessivamente prosaica, mite, popolare, indeterminata, mentre è facilmente spiegabile quale forma di prima iconografia cristica quale “bel pastore”, come recita il testo greco dei Vangeli e come compare nello stupendo Cristo paleocristiano e pastorale dei Musei Vaticani, anch’esso del III secolo d.C., e, non a caso, presentante insieme sia il tema pastorale che quello della vite rigogliosa, immagine della Chiesa, entrambi presenti nel nostro sarcofago.

Riguardo le altre scene raffigurate: le Meduse, la caduta di Fetonte, i due Dioscuri con i cavalli (segno di nobiltà e atletismo), i putti con il combattimento dei galli e i putti con il gioco dei dadi appaiono più temi narrativi di celebrazione della morte giovanile, comune a Castore e Polluce, che rinvii a culti tradizionali romani. Il richiamo a Fetonte, figlio del Sole, è quasi poi d’obbligo per un giovane nobile che muore e che si chiama “Elio”.

Pure allusioni al Fato, al caso, sono i temi decorativi del combattimento tra galli e del gioco aleatorio per eccellenza: quello dei dadi. Scene quindi che non possono essere strumentalizzate per imporre ideologicamente una tesi preconfezionata. La stessa presenza di Leda con il cigno, unico dettaglio bizzarro del sepolcro, può spiegarsi in continuità con le scene prima citate, quale, anch’essa, immagine allusiva del Fato. L’Uovo che Leda accoglierà è, infatti, secondo il mito l’uovo di Nemesi, cioè l’Uovo del Destino, da cui usciranno coppie fatali: i Dioscuri, Elena e Clitemnestra. Le infinite morti che, quindi, ne deriveranno possono portare già in epoca antica ad allegorizzare tale episodio del Mito quale emblema di un fato avverso. Non a caso Elena compare nel sepolcro paleocristiano di S. Elpidio in Ascoli.

Da rifiutare, invece, l’interpretazione cristiana del cigno quale emblema mistico o morale pensata da Louis Charbonnau-Lassay per il sepolcro tortonese in quanto è vero che il cigno veicolerà allusioni teologiche questo però accadrà in pieno medioevo e non agli albori dell’arte sacra cristiana.

Potremmo quindi avere il coraggio di sostenere che il sepolcro di Elio Sabino rappresenti un unicum nell’arte antica quale anello di congiunzione tra temi pre-cristiani e temi già cristiani, nella loro primissima, e spesso implicita, formazione espressiva.