“Amica mia amatissima,
ricordi quando ti resi partecipe del mio presentimento che avrei avuto una vita inondata di tragici eventi e di tante incomprensioni? Adesso come allora ti chiedo di essermi accanto, di tenere lontano da me le tante cose che mi fanno soffrire e che pure non posso evitare.
Avevo tredici anni e solo tu sai l’angoscia e il tormento di quei giorni quando mio padre annunciò le mie nozze con Giovanni Sforza.
Che cosa ne sarebbe stato di me, quale destino mi attendeva? Che fine aveva fatto quel Cesare al quale mi avevano detto promessa?
Spesso per gioco avevo immaginato questo matrimonio ma ora tutto era vero, già prossimo. Non c’era più tempo per le fantasie e nemmeno sapevo chi fosse colui che mi avrebbe strappata alla mia casa, ai miei sogni, all’amore di mio padre e dei miei fratelli.
Tremavo come in preda alla febbre e nessuno sapeva quale fosse il mio male.
Il terrore e la disperazione mi possedevano come fossi vittima di un maleficio.
Anche ora ho paura, paura per il mio corpo che vedo sempre più provato e indebolito.
La mia figura si è appesantita, questo clima minaccia la mia salute. Ho spesso la febbre. Il grigiore e il freddo mi sono entrati nelle ossa. Mi manca il sole di Roma.

Temo di non farcela ad affrontare questa nuova gravidanza. Prego sempre la Madonna del parto, ne porto l’immagine con me, le parlo, ascolto la sua voce di donna che ha conosciuto il dolore di madre.
Alcuni giorni orsono mi sono fatta condurre ancora una volta al convento di San Bernardino per cercare di trarre una qualche forza dalle eloquenti prediche di quei frati, eppure non ne ho ricevuto alcun beneficio.
Nel mio animo ci sono dolore e malinconia. Ho un sogno ricorrente.”

Lucrezia posa la penna sullo scrittoio, le sue mani sono delicate, quasi da bambina. Si appoggia alla poltrona con un gesto infastidito. Fatica a respirare. Il ventre pesante rallenta i suoi movimenti, prova a fare un piccolo giro ma si sente insicura e pensa che non riuscirà a danzare. È molto stanca.
Le pareti del prezioso camerino di bellezza che ama tanto sembrano stringersi attorno a lei, manca l’aria. Gli specchi che adornano le pareti ora la rendono inquieta: le rimandano un’immagine che non vuol vedere, le svelano la crudele verità del suo corpo appesantito. Il candido incarnato del suo volto ha perso lucentezza. La fronte le si imperla di sudore, è sofferente.
Chiude gli occhi ed ecco che ricompaiono le immagini del sogno.

“Cammino bambina in un giardino lussureggiante. Animali mai visti si aggirano tra la folta vegetazione. Odo voci vicine ma non riesco a scorgere presenze umane. Sono nella mia adorata Spagna. Mi sento felice quand’ecco giungere uno scalpiccio di cavalli. Si avvicinano sempre più.
So che sta per accadermi qualcosa di tremendo. Un uomo con il volto coperto mi afferra. Io grido e già mi ha issata con violenza sul suo cavallo.
Con la velocità fulminea che hanno i sogni mi ritrovo in un luogo sconosciuto circondato da mura.
Attorno a me tanta gente che parla una lingua diversa dalla mia e mi guarda con pesante curiosità. Qualcuno si avvicina, mi tocca, mi rivolge parole che non comprendo.
Sento delle grida tutto si confonde.
Voglio fuggire da questo inferno.
Mi portano uno specchio.
Guardo ma non mi riconosco.
Dov’è finita la mia immagine di bambina?
Lì, davanti a me c’è una donna che non ho mai veduto.”

Lucrezia spalanca i suoi grandi occhi, ha freddo, sente il freddo fin dentro le ossa, la attraversano brividi, sente quella paura profonda, oscura, incontrollabile che non la abbandona. Chiede che le sia portato uno scialle, non riesce a placare quel turbamento, ma vuole continuare la sua lettera. Lo scrivere rende più lieve la crudeltà della solitudine.

“Mi sveglio eppure l’incubo non è finito.
Quella donna sono io, la duchessa di Ferrara e le mura sono davvero intorno a me, mi accerchiano come lo sguardo di questi uomini che mi desiderano ma non sanno amarmi e di queste donne che mascherano a stento la loro invidia e il loro odio. Non cesseranno mai di chiamarmi forestiera.
Mi giudicano troppo altera, troppo sprezzante, troppo bella e, credo, anche troppo intelligente.
Lussuria, nefandezze, intrighi: ogni peccato mi era stato attribuito ancor prima del mio arrivo. Un pericolo, una rovina quasi certa stava per abbattersi sulla Corte.
Questa era la fama che mi precedeva.
Forse qualcuno, vedendo la mia esile figura, la mia chioma bionda, i miei occhi chiari come la mia pelle avrà avuto un dubbio: sarà davvero quella dissoluta creatura di cui si racconta?”

Si alza e fa cenno ad una delle Dame che le stanno accanto di pettinare i suoi bei capelli. Li tocca e scuote la testa: non sono più così morbidi e folti. La fatica li ha indeboliti.
Torna a sedersi. Si appoggia le mani sui fianchi, fa un respiro profondo e si rimette a scrivere.

“Mi sento sempre spiata e non ti nascondo che talora temo per la mia vita.
Quanti lutti si sono abbattuti su di me!
Che tragico destino!
La morte di mio padre e poi quella di mio fratello Cesare hanno creato il deserto nel mio cuore ma devo tentar di resistere per la creatura che porto dentro di me.
Tu non puoi comprendere quale sia stato lo strazio di veder nascere una bimba già morta! Ero così giovane!
C’è la morte attorno a me, una morte che sembra incombere sulle creature che amo, sì, una morte stretta al cappio dell’amore.
E l’orrore di quella terribile peste che sembra non cessare ancora di minacciarci.

Non ho potuto riabbracciare il mio piccolo Rodrigo. Sapessi quante volte mi sono chiesta quanto fosse cresciuto, se avesse il bel sorriso di suo padre. Quanto l’ho amato! Quanta sofferenza mi ha provocato quella separazione violenta, crudele che me lo ha portato via, che ha strappato un figlio a sua madre. Avevo il cuore gonfio di dolore mentre lo salutavo lasciando Roma. Tu lo sai che non mi hanno concesso di portarlo con me, e io avevo il chiaro presentimento che non l’avrei più rivisto.
Ma non devo lasciare che questi pensieri tristi mi feriscano il cuore, sono troppo provata per sopportare altro dolore, altra sofferenza.”

Le scendono le lacrime mentre scrive queste righe, si guarda intorno come smarrita, sembra più piccola, una fanciulla, con le mani si copre il volto e, nonostante i propositi, piange, finalmente si abbandona al pianto. Le sue Dame premurose le si fanno intorno per consolarla. Una goccia di bergamotto nel prezioso fazzoletto che le porgono: un gesto gentile, pieno di cura.
È una madre tenerissima Lucrezia, ama i suoi figli immensamente. Vuole che siano felici e raccomanda ai precettori di lasciarli giocare perché le piace sentirli ridere forse per tener lontana la malinconia.
Adesso è pronta per continuare.

“Amica mia dolcissima,
ti avevo quasi creduto quando immaginavi per me una splendida vita alla Corte degli Estensi, avevo creduto a mio padre che mi ripeteva di non darmi pensiero, che mi sarei trovata come a casa e mi assicurava che mi avrebbe scritto spesso, che sarebbe venuto a trovarmi presto insieme a Cesare, ma l’illusione è durata ben poco.
Terminato lo sfarzo del nuziale corteo ho conosciuto i dinieghi e le lamentele del duca Ercole che giudicava eccessiva la mia eleganza e troppo costose e disinvolte le mie abitudini mondane.
Del resto ben rammenti quanto mio suocero abbia lesinato sull’appannaggio dovutomi per sposare suo figlio Alfonso. Eppure era fastosa la mia dote fatta di ducati d’oro, di opere d’arte, di gioielli e cavalli, di oggetti di raffinata bellezza che, nel tempo della solitudine e della lontananza dalla mia dimora romana mi hanno scaldato il cuore durante i rigidi e nebbiosi inverni.

Devo ringraziare il mio devotissimo amico Ercole Strozzi se posso ricevere direttamente dai merciai veneziani le stoffe per i miei abiti. Tu sai quanto ami la seta, il damasco e il moiré. Quel morbido velluto ornato d’ermellino è divenuto un mantello sotto il quale il piccolo Santino, il nostro giullare, si è nascosto durante un banchetto balzando fuori all’improvviso, suscitando come sempre l’ilarità dei convitati. L’amico Strozzi commissiona per me monili e gioielli di rara raffinatezza.
I miei colori preferiti, ricordi, sono il bianco ed il morello ed è con abiti di tali tinte che ho spesso primeggiato sulle mie rivali, prima fra tutte mia cognata Isabella avvezza a considerarsi signora incontrastata in quel di Mantova.

Non ho cessato di sentirmi fuori posto anche ora che ho accettato di assumere il compito che mi spetta persino nelle questioni del ducato.
Alfonso è spesso lontano e mi sforzo di ignorare le notizie che giungono sempre più frequenti su di lui e lo dicono trattenuto dalle esigenze della carne più che da quelle della politica. Talora occorrono decisioni tempestive ed io ho imparato a prenderle, anche se con l’aiuto del cardinale Ippolito che non manca mai di darmi preziosi consigli.
Mi prendo cura delle vittime di queste infinite guerre che lasciano orfani, miseria e orrore.
Dicono che non sia priva di un certo talento negli affari di Stato. E non sono forse una Borgia?

Eppure ciò che desidero davvero, che mi dà un po’di serenità è stare con i miei poeti che comprendono chi io sia veramente e mi amano. Ho bisogno di conversare con loro, di perdermi nelle dotte disquisizioni filosofiche, di parlare di scienza, di leggere il latino, di ascoltare i componimenti raffinati che mi dedicano.
I ragionamenti d’amore che il Bembo mi ha donato sono un sollievo alla malinconia che non vuole abbandonarmi. Che artista straordinario, quanta forza nei suoi versi!
Il tempo che trascorro in sua compagnia mi ripaga degli affanni che mi procurano gli incarichi di governo.
Mi sento a mio agio in loro compagnia, ben più che con le Dame della Corte che mi guardano con gelosia, che sparlano della mia eleganza, dello splendore dei miei tanti gioielli. Mi chiamano con disprezzo figlia di papa e forse ora son contente di vedere la mia bellezza irrimediabilmente segnata.

Non mi sottraggo mai alle occasioni pubbliche, anche quando, come ora, mi sento estenuata. Le belle voci e le eleganti danze mi procurano indicibile piacere. E so di fare cosa gradita alle mie giovani e bellissime amiche, poco amate dalle donne di Corte ma molto dai loro mariti. Sempre mi sono state vicine. In loro compagnia ho tante volte dimenticato le meschine e astiose cattiverie, le piccole ma crudelissime vendette.
Le mie amate compagne sono state un porto sicuro. Non potrei pensare di separarmi da loro, dalla loro seducente bellezza e dalla giovinezza che voglio disperatamente vedere attorno a me quasi a rispecchiarmi in essa.

Quanto vorrei, mia dolce amica, vederti presto e abbracciarti.
Sono tante le cose che ho da dirti e i miei pensieri potrebbero all’infinito confondersi con i tuoi. Dammi notizie,

la tua Lucrezia
che sempre ti sarà devota e grata per l’amore che le porti.

Post scriptum Questa lettera non porta la data; è come se l’avessi composta lungo tutta la mia vita, se l’avessi scritta per me, per comprendere e perdonare. Le parole che si scrivono con tutto il cuore sanno essere balsamo e farmaco, aiutano ad entrare in quella intimità che illumina il vero. Quando le leggerai io sarò già là dove il tempo non esiste ma tu potrai ricordarmi ed io lo saprò.”

E son passati cinquecento anni da quel 1519 quando Lucrezia Borgia morì dopo aver fatto nascere prematuramente la piccola Isabella Maria.
Aveva trentanove anni e un destino che la accomuna a grandi figure della tragedia classica. Come Antigone piange e seppellisce i morti vittime della ragion di Stato.
Come Medea è la straniera ammantata dalla fama di donna dai torbidi amori con una storia bagnata di sangue e costellata di assassinii.

Grazie alla magica forza dello scrivere che fa da tramite fra immaginario e realtà posso aprire questa lettera e leggere così un’altra storia, incontrare un’altra donna che dà voce alla propria interiorità per condividere emozioni e parole che vanno al di là degli eventi e persino vederla, dialogare con lei, udirne la voce.

C’è una storia, un’altra storia che può scriversi attraverso il gesto di una lettera. Parole uniche, preziose, depositate su di un foglio che si fa legame di cuore con altro cuore, che si fa voce di un sentire colmo di emozioni, capace di cogliere il fruscio dell’inchiostro che sfiora la carta che lo accoglie affinché possa depositarsi su di lei come una carezza, intriderla così da dare forma ai pensieri, all’attesa dell’anima che ha bisogno di rivelarsi attraverso un corpo verbale, di esprimersi nelle infinitesime sfumature che la mano scrivente saprà consegnare alle pagine che, come antico ordito, si lasciano tessere da intricati, misteriosi fili.

Un tempo era un’arte preziosa quella della scrittura epistolare ed esisteva un vero e proprio genere letterario delle epistole immaginarie che permetteva di interagire con il passato storico. Una pratica da ritrovare, un invito a riprendersi il tempo di scrivere una lettera, a provare la gioia di riceverla.

A cura di Save the Words ®