In nessun luogo andai
per niente ti pensai
e nulla ti mandai...

(Lucio Battisti, Le cose che pensano, Don Giovanni)

E il tempo, il tempo non passa mai veramente
Se prima non passi tu.

(Mino Balduzzi)

Quando sfogliai la prima volta il poema Il mal de’ fiori di Carmelo Bene (Bompiani, 2000) pensai d’acchito ad una definitiva follia dell’autore, mista a ironica presa in giro del lettore. Pensai ad un vezzo da posa decadentistica misto a velleità sperimentali. Tutto già visto, tutto molto post-romantico. Nonostante la mia sviscerata ammirazione per Carmelo il testo sembrava solo ostico e respingente. Del tutto illeggibile! Ma non mi sono arreso e allora è accaduto l’impensato: i voli pindarici e le involuzioni verbali da acrobata iniziavano a sciogliersi, a rilasciare calore prima inespresso e si aprivano sonorità emergenti e portanti a patto di molteplici ritorni di accoglienza e ad una più paziente ed insistente attenzione si scorgevano perle rare di una liricità totale, assoluta, pur coglibili tra spessi veli frastici non dipanabili. L’illeggibilità quale status ontico, percorso d’iniziazione.

Mi sono chiesto allora sotto quale profilo si poteva tentare uno sguardo d’insieme. Il profilo qui scelto è quello del “parlare in negativo”, che ricorda la “teologia negativa” che vanta una nobile tradizione da Plotino a Meister Eckart, da Teresa d’Avila e Giovanni della Croce ad Angelo Silesius. Per associazione intuitiva mi venne da canticchiare allora una canzone di Battisti, una delle prime del “secondo Battisti”, dove la liricità da emozionale e intersoggettiva diventa cosale, situazionistica, criptica. Le cose che pensano rinvia non solo all’importanza per C.B. del corpo quale paradosso reale, frontiera ambulante, condizione ontologico-critica, da “pornologia” quale relazione fra cosa e cosa, ma rinvia anch’essa ad un “parlare per negazione”. Enrico Ghezzi una volta sintetizzò magnificamente l’opera intera di C.B. quale manifestazione dell’importanza del “Non essere” nell’arte. Dentro questo sguardo allora è più agevole cogliere alcuni ritorni strutturanti del testo del poema beniano il cui lacaniano cuore spesso è dato da cortocircuiti concettuali definiti dall’intensificata presenza di tutti i possibili prefissi, avverbi e congiunzioni negativizzanti, come “in”, “a” e “s”:

Noi non ci apparteniamo È il mal de'fiori
tutto sfiorisce in questo andar ch'è star
inavvenir
nel sogno che non sai che ti sognare
tutto è passato senza incominciare
'me in questo andar ch'è stato.

(Disvoluta invisibile ma cieca)

Il fiore viene assunto eroicamente, proprio in quanto imago abusata e stuprata dall’uso, quale refrain di un malessere insolubile dato dall’intima contraddizione insita in Kronos già esplicitata da Schopenhauer: il passato è oblio, il presente illusione, il futuro congettura. Abbiamo così una sub-liricità inversa, volutamente non cercata ma esplodente dal cuore e culmine di ogni narrazione beniana. Il de-pensamento beniano in poesia canta l’inconsistenza, la caduta, la vacuità e la canta in un corpo che è pura sonorità, metrica, volo, fuga contrappuntistica tanto barocca quanto nuda e fragile, aerea e ginnica, ignea e de-carnalizzante per eccesso.

Il “tu”, postulato di ogni lirisimo, qui viene assunto quale voragine vuota, porta murata, segno dell’assenza piena di persona a favore di una soggettività ambigua, sfuggente, nomadica, fluida. Poesia ultima, post-poetica, lirica in quanto negazione della liricità, della conclusione, di una distinguibile relazionalità stessa. Talvolta emergono toni lapidariamente e stoicamente leopardiani:

Quante stasera in cielo m'è conforto
noverare invisibile lo spento di stelle
che non è mai stato.

(Bianco Non sai Scordato)

Dove la potenza lirica qui è tutta lessicale in quel “noverare”, mentre la traccia noetica portante appare spietatamente razionale in quanto presuppone il pensiero astrofisico di una luce stellare che ci giunge già morta, pensiero assunto quale icona di una negatività strutturale, cosmica. Il regno assurdo di Kronos.

Bene, come già Nietzsche, canta la “sindrome post-sirenica”, cioè il soffrire dato dalla fine del canto, già assunto al suo inizio. Alte volte cogliamo riprese mitopoietiche di pensieri mistici cristiani come nel passo:

Ahi Bianco ch'è fiorito ne l'altrove
invidia'l qui ch'è strazio a lui non dato
di non morir si dole
Forse di non essere quel fiore non mai stato.

(Ne l'indove chissà se fu villaggio)

Dove il “di non morir si dole” rappresenta la citazione di una frase di S. Teresa d'Avila riferita all’annichilimento della persona nell’ascesi totale d’amore verso il Cristo. Vediamo quindi come i labirinti poetici di C.B. seguono in realtà una regia lucidissima, come una musica lenta e sconosciuta che poi sale in volute ellissoidali verso un kairos apicale dove sfavilla “un’enunciazione esistenziale in negativo”.

Tutto è scordato il viver che non vissi
solo ch'è degno d'esser ricordato.

(Principessa notturna dei penultimi)

Bene realizza un “soma scritto” che assorbe l’orale contaminando linguaggi e modi alla ricerca di un suo tono s-modato, alla ricerca di un superamento per eccesso del concetto di genere, forma, qualificazione, e dando alla luce una lingua ignota tra lo Stil novo e il Barocco, tra Jacopone da Todi e Bernini, tra Giuseppe da Copertino, il santo analfabeta, e la surrealtà di Laforgue.

Tu che non sei che non sarai mai stata
il mal de' fiori presso allo sfiorir
dolora in me nel vano ch'è l'attesa
del non mai più tornare.

(Questo ch'è tuo non essere mai stata)

Se il fiore è destinato presto a sfiorire cela un male innato, segno della negatività quale continuità e l’esserci quale eccezione effimera. È allora l’artificio il genio delle cose, la sola strada che riscatta con la sua arte l’inconsistenza del permanere.

Quanto che fu esentato d'artificio
somiglia l'impensato delle cose
che furono mai...

(Pavana a mo' d'addio)

Il percorso di vita appare privo di una linea di coerenza. Si è detti e scritti, non è dato un proprio participio presente. L’esserci appare reale solo nell’arte:

Noi che morimmo in viver la tormenta
marcescente bellezza guasta eterna
della seconda sinfonia di Mahler.

(Amor non me' ò fa dir)

In questo la poesia di C.B. ricorda il miglior Caproni, cioè nel suo tener insieme i due estremi della metrica, della centralità del ritmo e degli aspetti formali, come le abbreviazioni trecentesche, e lo svuotamento postmoderno della semantica nel “parlar in negazione”.

L'hanno portata via l'hanno portata via
'me il tutto ch'è mai stato e poi finì.

(Siamo fuor del marcire dentro un sacco)

Il “non detto”, il velare il pensiero genetico dell’opera, il volo verso un corpo vuoto in cui si sta, intensificano l’intensità non poetica ma poietica del verso:

Sei quasi desiderio di cosa figurata
dentro l'opera immota
il trillo intermittente di una nota sempre quella patetica
d'intentato strumento mai dato.

(Patetico preludio)

La Poesia viene rigorosamente riassorbita nella phonè, intesa non in senso trascendente ma quale puro suono immanente, eco di un conflitto tra negazioni, voce tua in quanto ti chiama da un altrove inconoscibile, suono che canta in quanto si/sé sente nella compiuta emissione. Puro gorgianesimo in versi.

Questo ch'è tu non essere mai stata
nommai avvenir
altro dal mal de 'fiori se non sono
che prossimi al fiorir chiama e si muore...
tu sei la voce che ti chiama...

(Questo ch'è tuo non essere mai stata)

Allora paradossalmente tutto assume forza poetica in quanto è il ritmo e la scelta distruttiva dello sguardo a selezionare luci, colori ed echi nel totale (s)fiorire continuo dove dominano potenze invisibili dell’aria e nulla permane oltre il riscatto lirico della sua apparenza.

L'aria inimica delle cose ferme
che sono se non sono.

(Non mai più figurata all'inseguito)

Simile operazione, fredda, lucida, sperimentale la compie Battisti nell’opera Le cose che pensano, dove inverte in negazione le azioni strutturali e archetipiche della relazionalità emozionale e d’affetto, compiendo una rivoluzione copernicana, ancora da studiare e apprezzare del tutto, come pure ancora vergine di vero ascolto e sveglio sguardo appare il magnifico poema Il mal de’ fiori, capolavoro estremo di Carmelo Bene, limite massimo insuperato del possibile poetare, saturazione simbolica delle possibilità di uno scrivere libero da se stesso quale testo. Non è un caso come sia impossibile tentare di comprendere e apprezzare Il mal de’ fiori senza generare a sua volta ulteriori poetici scardinamenti, come l’affascinante esegesi di Sergio Fava dimostra.