Ieri sera tutti gli operai braccianti sono giunti felicemente a Fiumicino mediante un treno messo a disposizione dal governo. In tutto il viaggio non ebbe a verificarsi il benché minimo inconveniente…Tutti sono animati dal desiderio di dimostrare quanto siano false le accuse lanciate contro la generosa e forte Romagna.

Così telegrafava al quotidiano Il Ravennate, il 26 novembre 1884, Armando Armuzzi, che, assieme a Nullo Baldini, era stato organizzatore e tutore della spedizione che aveva portato 400 braccianti dell’“Associazione Generale degli Operai Braccianti”, da Ravenna a bonificare il desolato e malarico Agro romano.

E la chiusa polemica del telegramma aveva un retroscena recente, perché i braccianti ravennati, e per la cattiva fama di sovversivi accumulata negli anni, e per la divisa costituita da una tuta blu su cui campeggiava uno sgargiante fazzoletto rosso, non avevano potuto far sosta nella capitale, ma erano stati immediatamente dirottati a Fiumicino. D’altra parte, lo stesso senatore liberale ravennate Pier Desiderio Pasolini ricordava che “quando si seppe che alcune centinaia di braccianti romagnoli sarebbero venuti a lavorare nell’agro romano, la preoccupazione e lo spavento fu generale, pareva che arrivassero i barbari”.

Si trattava, perciò, di dimostrare, anche fattivamente, lo spirito mutualistico e le capacità organizzative di un’impresa che doveva servire una volta di più a sfatare il vieto e interessato stereotipo del romagnolo violentemente intransigente. Ma che cosa trovarono i nostri coloni a Fiumicino e Ostia? Facendo tesoro dell’inserto documentario e fotografico di Pane e Lavoro, il testo di Giuseppe Lattanzi, Vito Lattanzi e Paolo Isaja, pubblicato dall’editore Longo nella prestigiosa collana “Contemporanea”, si riesce a ricostruire, attraverso le dichiarazioni dei protagonisti, l’ambiente e il primo impatto con l’agro romano.

“Prima dei romagnoli qui era uno squallore, un deserto, pieno di malaria, era tutta palude…i ciociari abitavano in dei capannoni, si moriva tutti di colera, abbandonati, seppelliti di qua e di là”, inoltre, la plaga era rifugio di briganti e diseredati, ma soprattutto era infestata dalla malaria che mieté centinaia di vittime tra i bonificatori. All’inizio non c’era nemmeno un medico-condotto, ma i romagnoli non si rassegnarono e cominciarono a creare la “croce verde”, una sorta di posto di pronto soccorso con un’ambulanza trainata da volontari che, correndo, portavano il malato fino agli ospedali romani. Ogni tanto si vedevano medici francesi e inglesi che, nell’ambito di ricerche clinico-farmacologiche, somministravano pillole di chinino e pagavano i bambini che catturavano le zanzare anofele.

L’organizzazione del lavoro si basava “sull’intervento diretto degli operai nel contratto di lavoro, turni preferibilmente di otto ore e divisione in squadre di operai, proprietà collettiva degli strumenti di lavoro, mutuo soccorso e assistenza sanitaria autogestita, remunerazione paritaria ed equa distribuzione dei beni”.

Fondamentale fu, poi, l’apporto delle donne, che venivano impiegate nei lavori agricoli, quando le terre, bonificate, divennero coltivabili, e, contemporaneamente, dovevano badare all’esigenze della vita di tutti giorni. Si alzavano alle 3 per fare il bucato ed erano pronte anche a soddisfare le nostalgie culinarie degli uomini, confezionando tagliatelle e cappelletti. Ma poi, le “arzdôre” si rifacevano nelle gare di ballo e scatenando contese maschili che arrivavano fino al duello: era una “scenografia” proprio da “Far West”, perché il classico “camerone” romagnolo era trasformato in “saloon”, dove le sciantose ballavano sui tavoli e le ballerine, vestite con abiti confezionati segretamente, si confrontavano in tenzoni danzanti che arrivavano allo sfinimento.

Con l’andare del tempo, i risultati furono confortanti: gran parte dell’agro era “redenta”, tanto che l’Associazione Generale Braccianti era ormai divenuta “Colonia Agricola Ravennate”; si decise, anche troppo ottimisticamente, ad acquistare e ristrutturare degli immobili della vecchia Ostia, che vennero affittate ai coloni; contemporaneamente furono assegnati in mezzadria i terreni agricoli, con la produzione di frumento, cereali e cocomeri. Addirittura si arrivò a battere moneta interna, con banconote che, a volte, potevano anche essere cambiate all’esterno.

Tutto sembrava andare per il meglio, ma incombeva sempre l’incubo della malaria, tanto che un Regio Decreto aveva emanato nuove norme per contenere la malattia, imponendo parametri abitativi e lavorativi stringenti a cui la Colonia Agricola Ravennate si dovette adeguare, praticamente dissanguandosi. A questo si aggiunse l’inquietante scoperta che il suolo bonificato, dopo una primitiva incoraggiante resa, si era rivelato ancora eccessivamente salmastro e poco fertile; si può così capire perché i dirigenti della cooperativa furono costretti, per evitare la bancarotta, al passo estremo di accettare una donazione del re. L’umiliazione fu ancora più dolorosa perché il monarca nominò un esperto contabile di sua fiducia per ripianare i conti della cooperativa.

Inevitabile che i contrasti ideologici che già avevano accompagnato il sorgere dell’impresa si acuissero e che sorgessero delle “tentazioni” utopistiche negli stessi dirigenti storici, come Nullo Baldini, che prospettò la creazione di una colonia “icariana”, sullo stampo di quelle di Cabet, in cui vigessero i soli principi di uguaglianza, fratellanza e democrazia. Sogni, che si scontrarono con la dura realtà di dover accettare un “eroico compromesso” per continuare a garantire la sussistenza a centinaia di famiglie. E anche se l’esperienza dei braccianti romagnoli non costituì un detonatore politico per una nuova visione del lavoro e della società (cosa che, comunque, non era nel progetto iniziale), bisogna riconoscere che, a differenza dei tentativi comunisti utopistici che si spensero nel giro di pochi anni, ebbe un’eccezionale durata nel tempo (si scioglierà solo negli anni ’50) e assicurò “pane e lavoro”, il che, ne abbiamo un’amara esperienza anche oggi, non è poco.