Per alcuni di noi, che non sempre hanno saputo condurre la vita all’altezza dei propri sogni, continuare almeno a sognarli è condizione essenziale per poter sopravvivere al proprio disincanto.

Per me i sogni hanno sempre avuto il respiro del mare e nella prosaica realtà della vita quotidiana, quaggiù nelle opprimenti caligini della pianura rinchiusa tra i monti, alcuni improbabili oggetti che casualmente mi capita di trovare, hanno il potere di irrompere come il maestrale tra i passi montani, spazzano via queste brume e per un attimo mi spalancano le luminose porte dei sogni.

Uno di questi magici amuleti ha richiamato la mia attenzione la vigilia dello scorso Natale, dalla buia vetrina di un vecchio antiquario, mentre, tediato, passeggiavo nei vicoletti del centro storico della città in cui vivo, la rossa Bologna, la città meno marina che si possa immaginare.

Entro e nella penombra, in fondo al bugigattolo che costituiva tutto il negozio, vedo meglio ciò che avevo intravisto con la coda dell’occhio: un bellissimo e assai malandato modellino di veliero, un gran galeone che per le cospicue dimensioni e per le scarse probabilità di trovare un babbeo che se lo comprasse, l’antiquario, malandato come il suo modellino, aveva buttato in un angolo a raccogliere la polvere.

Dopo una breve trattativa, altri cinque minuti e mi avrebbe pagato lui purché me lo portassi via, il polverosissimo veliero era mio.

A casa lo guardo meglio e mi rendo conto che è davvero bello, probabilmente era nascosto in una cantina perché gli è caduta addosso tanta polvere e in un punto della chiglia, a prua, anche dell’acqua e non certo quella del mar dei Caraibi.

Da ragazzino mi ero un po’ baloccato con i modellini in legno di navi e questa aveva davvero qualcosa di famigliare con le sue statue barocche che ornavano la poppa, la prua arrotondata e le minacciose bocche da cannone in doppia fila, come se in passato mi fossi già occupato di lei... ma sì! Alla fine ricordo, certo! È un notevole modellino del celebre galeone Wasa, che avrebbe dovuto essere l’orgoglio della marina svedese del XVII secolo e la cui storia merita davvero di essere brevemente raccontata.

Nella prima metà del XVII secolo il re Gustavo II Adolfo di Svezia volle celebrare la sua grandezza e la sua potenza marittima costruendo la più formidabile macchina da guerra dell’epoca che in quegli anni non poteva essere che un grande galeone.

Quelle meravigliose creazioni raccoglievano tutta la scienza e la tecnologia più avanzate che l’epoca potesse offrire, racchiusa in un immenso scafo di quercia scolpito ad arte, concepito da maestri carpentieri e condotto dalla perizia di un’arte suprema quale era la navigazione a vela.

Purtroppo, nel caso della Wasa, il re interferì ripetutamente nella costruzione del vascello con pretese sempre più assurde, man mano veniva a conoscenza di analoghi progetti dei Paesi concorrenti, per superarli in grandezza e in potenza di fuoco, inoltre il mastro carpentiere, l’unico che forse avrebbe avuto l’autorevolezza per opporsi all’arrogante incompetenza del sovrano, si ammalò e morì lasciando i lavori in mano a deboli maestranze molto meno esperte di lui.

In particolare Gustavo II volle allungare la chiglia e soprattutto impose la costruzione di un secondo ponte di cannoni che rese il vascello troppo alto rispetto alla larghezza e le masse ingenti ad alta elevazione rispetto al baricentro lo rendevano pericolosamente instabile.

Si cercò di aumentare la stabilità della nave aggiungendo zavorra ma questo aumentò il pescaggio dello scafo avvicinando pericolosamente la linea di galleggiamento ai portelli della prima fila di cannoni.

Le prove di stabilità, che allora si effettuavano facendo correre 30 uomini ai due lati del ponte, fecero subito oscillare pericolosamente il Wasa e vennero pertanto immediatamente fermate ma nessuno ebbe il coraggio di opporsi al re, quindi la nave venne dichiarata pronta a prendere il mare e il varo avvenne come previsto.

Il 10 agosto 1628 il Wasa, in pompa magna con meravigliose statue dorate a poppa, palii e stendardi, ammainò le vele per il suo viaggio inaugurale dal porto di Stoccolma dove era stato costruito, ma subito una prima folata di vento la fece rollare pericolosamente.

La perizia del timoniere recuperò la stabilità ma una seconda folata la inclinò inesorabilmente da un lato, l’acqua iniziò ad entrare dai boccaporti del ponte dei cannoni più vicino alla linea di galleggiamento e in pochi minuti, ad appena 120 metri dalla costa e dopo aver percorso meno di un miglio marino, il Wasa affondò uccidendo almeno 40 tra invitati alla cerimonia e membri dell’equipaggio.

Il re istituì immediatamente una commissione di inchiesta che ovviamente non approdò a nulla ma si dice che un notabile, interrogato da un diplomatico straniero sulle possibili cause del disastro rispondesse: “Solo Dio... e il Re conoscono la verità”.

Col tempo si perse la memoria persino del punto preciso dove la nave, orgoglio della marina svedese, giaceva sul fangoso fondale del porto di Stoccolma tuttavia la bassissima salinità del Baltico, la bassa temperatura delle sue acque che non superano mai i 5 gradi e l’ottimo legno di rovere di cui era costruito lo scafo, impedirono il devastante lavoro delle teredini, i vermi marini divoratori del legno, perciò, quando nel 1961 il relitto venne localizzato e riportato a galla, era perfettamente conservato.

Dopo un lungo lavoro di restauro ora il Wasa, restituito all’orgoglio della Svezia, può essere ammirato con tanto di alberi e sartiame ricostruiti secondo le tecniche del XVII secolo, nel museo appositamente costruito per lui assieme a circa 26000 manufatti e arredi ripescati attorno al relitto, tra cui le splendide statue lignee che ne ornavano la poppa, staccatesi quando il mare e il tempo avevano dissolto i chiodi di ferro che le tenevano salde alla struttura dello scafo.

Ecco la breve storia del Wasa, la meravigliosa nave rappresentata dal mio modellino, anche esso ripescato dai melmosi bassifondi della memoria ed ora, ripulito alla meglio e rabberciato alla meno peggio, fa anche lui la sua bella figura nel salone della mia casa-museo dove, tra conchiglie, esotiche zagaglie e strane pietre, ho raccolto i ricordi di tanti viaggi, dietro i quali mi guardano, severi e risentiti, i brandelli dei sogni della mia giovinezza.