La cultura è come un organismo, che cresce e si arricchisce e muta, col procedere del tempo. Non è mai data, immutabile e per sempre. È sempre pericoloso, credere che la cultura sia un corpus conchiuso, che non prevede altra possibilità se non il conflitto, con le culture ‘altre’. Non c’è cultura ‘complessa’, che non sia debitrice di altre culture. Forse i soli paradigmi culturali che possano essere ritenuti totalmente autocentrati, sono quelli di alcune popolazioni native, come gli aborigeni australiani o certe tribù amazzoniche, che hanno vissuto in totale isolamento - almeno sino all’arrivo dei ‘bianchi’.

La cultura è come il tronco d’un albero, se lo si guarda in sezione si vedono le successive fasi di crescita, la sua ‘espansione’ per cerchi concentrici. Così la cultura può essere ‘letta’ per livelli diversi di omogeneità. Parola, questa, da usare peraltro con prudenza, perché accoppiata alla parola cultura rischia di produrre un ossimoro: la cultura, di suo, è varietà, ricchezza.

Ma indubbiamente si può parlare, ad esempio, di cultura ‘occidentale’ ed ‘orientale’, di cultura ‘europea’, di cultura ‘italiana’, di cultura ‘meridionale’, di cultura ‘regionale’...

Ed è un auto inganno, pensare che la cultura siciliana o veneta sia più simile a quella italiana, di quanto questa non lo sia a quella europea. Ogni ‘cerchio’, contiene al suo interno quello più piccolo, ed è a sua volta contenuto da quello più grande.

La cultura non è solo interscambio, ma è anche divenire. È un processo evolutivo costante. Se questo processo si ferma, la cultura muore.

Ma, all’interno di questo processo, l’interazione tra i soggetti è altrettanto fondamentale. Ciò che una cultura è oggi, dipende da come si è sviluppata l’interazione tra ciò che era ieri e quanto è subentrato di nuovo nelle condizioni materiali di vita, nella percezione psicologica, nella dinamica sociale, ma anche nella dimensione ambientale o nell’arte.

Vale per la cultura ciò che, nelle parole di Lavoisier, vale in fisica: "Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma".

La cultura è però un prodotto umano e, quindi, è ‘soggetta’ alla natura umana - fisica, psicologica, emotiva.

Il paradosso odierno, è che - per un verso - l’Uomo sta producendo una accelerazione straordinaria nello sviluppo tecnologico, che ha un impatto profondissimo sulla vita della specie e dell’intero ecosistema planetario, e - per un altro - la sua capacità di sviluppo culturale arranca affannosamente, sopravanzata dai mutamenti tecnologici, rispetto ai quali non riesce a ‘reggere il ritmo’.

La capacità di elaborazione culturale umana ha tempi più lunghi, rispetto alla velocità dei cambiamenti indotti dalla tecnologia. È come se la mano destra facesse cose così in fretta, che la sinistra non riuscisse più a coordinare i propri movimenti con l’altra mano.

Per essere più chiari, l’avvento e lo sviluppo delle tecnologie digitali ha avuto un andamento sì veloce, ma comunque lungo qualche decennio; ed anche se oggi si parla di ‘nativi digitali’, non di meno l’elaborazione culturale di questa ‘mutazione’ della società ha avuto il tempo di realizzarsi, ed è patrimonio diffuso, al di là della capacità tecnica d’uso.

Ma, come uno spin-off, le tecnologie digitali hanno a loro volta prodotto un salto epocale, consumatosi invece in brevissimo tempo: i Big Data.

Il cambiamento prodotto è così profondo, così radicale, e soprattutto così veloce, che, appunto, la nostra elaborazione culturale stenta a coglierne la portata. I Big Data impattano sulla vita umana in misura straordinaria, come è stata la capacità di accendere un fuoco o di ‘addomesticare’ animali e piante, ma invece che consumarsi lungo l’arco di alcune migliaia di anni, tutto ciò è avvenuto nel tempo di un lampo.

Di fronte a questo scarto, a questo iato che rischia di approfondirsi giorno dopo giorno emerge l’urgenza estrema di riconnettere la cultura con la tecnica. Il pericolo, infatti, non è tanto nell’ipotetico predominio dell’intelligenza artificiale, quanto in questa ‘sconnessione’ tra il dominio della tecnica e la nostra capacità di ‘governarla’ culturalmente.

Il datacene, l’era segnata dalla pervasività dei dati, offre opportunità straordinarie all’Uomo. Ma per coglierle è necessario ‘riagguantarli’, recuperare il ritardo della cultura.

E per farlo, è necessario partire dalla cultura stessa, ‘forzandola’ a confrontarsi con la sfida dei Big Data, trovando in essa nuove forme e capacità di interazione, di elaborazione, di trasformazione dell’altro e di sé. La cultura deve ‘impugnare’ i dati, non per ‘dominarli’, ma per usarli, per trasformarli ed esserne trasformata.

Se non colmiamo questo gap, il rischio è che il datacene sia davvero tale, sia non solo l’era segnata dalla presenza dei Big Data, ma anche dal loro predominio.

La cultura è una creatura fragile. Se si ferma, muore.