A volte, ma solo a volte, l’alessitimia, atrofia lessicale, è una maschera con cui ci si nasconde. Ci si ritrova come sull’uscio di uno scantinato oscuro: conosci perfettamente la stanza, ne intravedi contorni, forme e colori. Vedi le scale. Intravedi i gradini di legno. Appoggi il piede sul primo scalino. Lo senti cigolare sotto il tuo peso. Hai paura che la scala ceda. Cerchi conforto nella ringhiera ma questa si muove, dà l’impressione di staccarsi da un momento all’altro. A fatica, nell’ombra delle tue insicurezze, fai i tuoi primi incerti passi, cercando la cordicella che fa da interruttore a quell’unica lampadina della stanza. La trovi ma la luce non si accende. La lampadina si è fulminata. Panico. Ansia. Paura. Vorresti andare avanti per cercare in quel ripostiglio la scatola dei ricordi che tanto stavi cercando ma non ci riesci. Vorresti tanto tornare indietro ma hai troppo paura di rifare le scale. E cosi rimani lì. Fermo. Bloccato. Terrorizzato. Tremante. A metà scala. Hai paura di respirare per paura che un tuo qualunque movimento faccia crollare quella scala che nemmeno tu sai come fa a reggersi in piedi dopo tutti quegli anni. Sì, perché sono anni che sta lì, ma non hai mai avuto il coraggio di scendere. Sapevi dove era ma una forza inspiegabile ti paralizzava. Ti faceva trovare escamotage per non affrontarla.

Questo è quello che molte persone, più o meno consciamente, affrontano ogni giorno. Perché atrofia lessicale? Per sua definizione un’atrofia è una patologia in cui un organo, non adeguatamente stimolato, perde la sua funzionalità. Stessa cosa succede per le parole. A volte, ma solo a volte, la paura di affrontare quello che le parole significano fa sì che queste perdano progressivamente senso. Con il tempo, non avendo più significato, anche il concetto ad esso legato perde il suo contenuto. Risultato? Alla fine non ci si ricorda più come questo sia fatto. I sentimenti si iniziano a confondere. Nulla è quello che sembra. Tutto potrebbe essere tutto o il contrario di tutto.

Le piattaforme di social media hanno cambiato il modo in cui ci informiamo e possono modificare le nostre opinioni, il senso, la verità. Il caso dell'epidemia di COVID-19 sta dimostrando l'impatto di questo nuovo ambiente informativo nel determinare la risposta sociale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha chiamato questa epidemia di contenuti “infodemia” sottolineando che insieme alle informazioni corrette in questo modo vengono diffuse più rapidamente anche notizie false e informazioni imprecise, oltre che ad un linguaggio assai gramo.

Il vocabolario dovrebbe risiedere nella parte più nobile del cervello: la corteccia, ma si ha l’impressione che nella corteccia di tante persone ci siano solo espressioni come “top”, “grande”, “numero uno” oppure “merda”, “idiota” ecc. Nel linguaggio scritto ci sono le emoticon. A causa della mancanza di un vocabolario per descrivere le emozioni, afferma il Dr. Antonio Taranto - Dirigente ASL del Dipartimento dipendenze patologiche di Bari - il linguaggio “articolato simbolico” è diventato solo simbolico e i simboli non rimandano più a storie, miti e leggende, ma solo ad altri simboli senza storia. L’alessitimia è l’incapacità di definire le proprie emozioni con le parole, è il daltonismo dei sentimenti: li distingui, si analizzano con la parte più razionale, li senti, ma non sai chiamarli. Vedi grigio non riuscendo a capire cosa stia provando. Forse paura, forse ansia, forse nervosismo. Si sta male senza capire il perché. Non ci si rassegna. Si vive sempre in agonia, non riuscendo a stabilire il sentimento, non si riesce ad impostare una procedura cognitiva. Questa s’interrompe, non ha più il suo fluire naturale. Il paziente entra in loop. Ci si accorge – solo in determinati momenti – di esser soli. Subentra la stasi emotiva.

L’esempio classico pone in analisi le emozioni per la mamma di Bambi, protagonista di un lungometraggio di animazione statunitense, prodotto dalla Walt Disney e basato sul romanzo Bambi, la vita di un capriolo dell'autore austriaco Felix Salten. Durante il primo inverno di Bambi la madre viene uccisa da un cacciatore di cervi, lasciando il piccolo cerbiatto solo nascosto ad aspettarla in una radura. È stato valutato che l’alessitimico non rimane insensibile all’accaduto, ma non sa chiamare il sentimento che prova.

Ogni essere umano reagisce in relazione ad impulso e risponde con emozioni che lo portano a comportarsi di conseguenza. Se tocchi il fuoco ti scotti, se accarezzi un coniglietto ti piace e lo riaccarezzi, perché hai capito che ti piace.

L’alessitimico ha bisogno di più tempo per rielaborare il fatto e comportarsi di conseguenza.

“Words! Words! Words!” (ingl. “Parole! Parole! Parole!”). È la risposta di Amleto (Shakespeare, Hamlet, II, 1, 195) a Polonio che gli chiede che cosa legga (What do you read, my lord?); è un’espressione che si usa citare o per affermare la mancanza di contenuto, di sentimento, di concretezza, in un’opera, in uno scritto, in un discorso, o per contrapporre alla leggerezza delle parole la serietà dei fatti, la drammaticità di una storia di alessitimia compensata con la droga e altro.

Eva ha 40 anni. Era bella ma il suo corpo, oggi, è devastato dalla droga e da tante cicatrici da ferite lacerocontuse, flebiti, ascessi, piercing “dove non batte il sole”. La sua fama è di essere una “gran puttana” che, per una dose, concede sesso. E quando è fatta si fa usare gratis perché è una donna di facili costumi. È stata nelle comunità e ne è stata cacciata perché si congiungeva con tutti. È stata negli ospedali e ne è stata bandita, perché si accoppiava pure con i malati e si drogava. Aveva una famiglia e ne è stata ripudiata perché drogata e “puttana”. “Quando ho parlato con lei”, racconta il Dr. Taranto, “ho avuto l’impressione che fosse una drogata puttana, ma rilevavo che al di là di quelle poche parole, dell’assenza di vergogna, di senso di colpa, di orgoglio o altri sentimenti/emozioni se non la congedavo espressamente non se ne andava dallo studio. Quando le chiesi quale fosse la cosa che le piaceva di più, mi disse l’amore e me lo spiegò dicendo che ‘non posso fare a meno del sesso’. Nulla di più. Piano piano mi feci raccontare la sua storia”.

Da bambina, Eva era stata molestata sessualmente dal padre. Lo amava in modo filiale. Da ragazzina litiga con il padre e lo denuncia; il giudice la considera bugiarda e la madre la punisce. Lei scappa di casa e incontra un ragazzo. In pochi minuti “si innamora” e ci va a letto. Il ragazzo la presenta agli amici che le fanno i complimenti e lei ci fa sesso. Poi le danno la droga e così continua: ogni nuovo incontro è sesso.

E le emozioni, per Eva, dove stanno? Lì dentro. L’amore che avrebbe voluto esprimere con il padre non è narrabile. La risposta che il padre ha dato al suo desiderio non è narrabile; la rabbia che ha provato nei confronti di madre e padre non è narrabile. Di tutto questo rimane solo il contenitore fisico di tutte quelle emozioni. Eva può parlare e raccontare solo attraverso il suo corpo. Non ha parole per esprimere quello che ha provato.

Che cos’è poi la sofferenza? Nel romanzo di Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Dimitrij Karamazov risponde: “Non la temo, fosse anche eterna. Prima la temevo, adesso non la temo più. [...] Ho come la sensazione, grazie alla grande forza che mi sostiene, che avrò la meglio su tutto. Sono disposto a sopportare qualunque sofferenza, pur di poter dire in ogni momento: io sono! Fra mille dolori io sono! Mi contorco per le torture, ma sono! Sono alla gogna, ma esisto anch’io, vedo il sole, e, se non lo vedessi comunque so che esiste. E sapere che c’è il sole è già tutta la vita.”

Che cos’è poi la sofferenza? Non una critica, ma un ponte da attraversare per giungere a scoprire l’origine del caos che risiede nel nostro prossimo ed in ciascuno di noi, poiché ogni scelta del singolo assoggetta la risposta del prossimo. Eppure siamo tutti lontani dal cuore di tutti. Costretti, vicini di storia e di vita. Contaminati dall'assordante silenzio di chi nel proprio corpo non trova un posto alleato in cui rifugiarsi, cullarsi...

Nel saggio Disobbedienza civile Thoreau, condannando apertamente le scelte del governo statunitense, in particolare la permissione della schiavitù e la guerra espansionistica contro il Messico, scrive che “il governo migliore è quello che governa meno”. Thoreau sostiene quindi l'idea che “il governo migliore è quello che non governa affatto” e che qualsiasi forma di governo limita drasticamente la singolarità di ogni individuo, perché significa far decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato unicamente a coloro che sono al potere, non tenendo conto del parere e delle esigenze del popolo; la legge non rende perciò l'uomo giusto, lo rende anzi ingiusto quando egli, fedele ai suoi valori ed alla sua libertà, non la rispetta. Thoreau fonda così i primi movimenti di protesta e resistenza nonviolenta, che verranno successivamente rappresentati da Martin Luther King e Gandhi.

In Disobbedienza civile, egli spiega i motivi del suo arresto ingiusto, sostenendo che è ammissibile non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell'uomo. Non possiamo però considerare Thoreau propriamente un anarchico: l'aspirazione che viene enunciata non è quella dell'immediata abolizione del governo quanto l'immediata istituzione di un governo migliore nell'attesa che gli uomini siano pronti per l'assenza di esso.

Ornamenti. Statue. Vittime della stessa propria politica. Di ogni situazione l’unico responsabile siete voi stessi. Ciascuno di noi ha il controllo del proprio mondo interiore. Se lo si trascura lui trascurerà voi.

(Credits: Dr. Antonio Taranto, Dr. Fabrizio Toni)