Se Nerone “affrettò” col veleno la morte della prediletta zia Domizia per impadronirsi dei beni che possedeva nel ravennate, nei quali organizzò “splendidi luoghi di ritrovo per giovani”, già da qualche decennio, o secolo, proprio a Ravenna esisteva e prosperava una quotatissima scuola per gladiatori con allievi provenienti dalle più lontane regioni. La Ravenna d’allora era già città dello spettacolo e dell’intrattenimento, con il suo teatro, il suo circo per le corse di bighe e quadrighe e, soprattutto, il suo anfiteatro che si favoleggiava potesse contenere fino a 25.000 spettatori, tanto che il buon vescovo Pier Crisologo, qualche secolo dopo, condannava l’ancora smodata passione dei ravennati per i giochi e gli spettacoli cruenti.

Ma la futura capitale dell'Impero d'Occidente era anche luogo di “confino” di lusso per sovrani e relativi parenti, che in passato erano stati avversari di Roma, e che ora, o sconfitti o “pentiti”, venivano relegati in un esilio più o meno dorato, in un luogo sufficientemente isolato e da cui era difficile fuggire o tramare.

Questa è un po’ la premessa del saggio-narrazione Il gladiatore dimenticato, che lo scrittore e storico Eraldo Baldini ha pubblicato con l'editore Longo.

In un intelligente gioco di sdoppiamento, la storia che l'autore ci racconta ed il personaggio che evoca, sono suffragati da una scrupolosa documentazione storico-letteraria, ma ci spingono anche a ricreare una parallela narrazione immaginaria, ricca di risvolti patetici e di vicende crudeli.

L'antefatto è la fondamentale battaglia della Selva di Teutoburgo, del 9 d.C., in cui il re Arminio portò i Germani a sopraffare le legioni romane di Varo, segnando, praticamente, la fine dell’espansione romana verso Nord-Est, “delineando e cristallizzando una situazione che si sarebbe protratta molto a lungo, con effetti storici, politici e culturali di enorme rilievo. Il Reno, infatti, divide ancora oggi due aree: da una parte il mondo latino-gallico, dall’altra quello germanico.”

Tacito, partendo da questo evento, si sofferma a scrivere dello sfortunato figlio di Arminio, Tumelico, che, catturato dai Romani insieme alla madre Tusnelda, fu poi esiliato a Ravenna, “puer quo mox ludibrio conflictatus sit in tempore memorabo” (il bambino fu allevato a Ravenna e dirò a suo tempo a qual ludibrio fu in seguito sottoposto). Nell’opera dell’autore degli Annali, poi, non c’è più traccia del seguito di questa vicenda, ma quel “in tempore memorabo” si è insinuato nella fantasia di tanti scrittori, soprattutto di lingua tedesca, che, sia con intenti apologetici, sia con intenti romanzeschi, hanno tessuto la storia di un Tumelico morto in un sanguinoso combattimento gladiatorio nell’immenso anfiteatro ravennate.

La più celebre e fosca di queste trasposizioni è Der Fechter von Ravenna (Il gladiatore di Ravenna) di Friedrich Halm, tragedia in cinque atti rappresentata per la prima volta nel 1854, con successo, al teatro di corte di Vienna: per palesare il trionfo dei Romani sulla Germania, l’imperatore Caligola “comanda che Tumelico, vestito e armato alla foggia dei Teutoni, pugni nel circo con Diodoro, indossante la clamide imperiale, e che Tusnelda con una ghirlanda di quercia, adorna di un manto di porpora raffiguri la Germania, e dia spettacolo della morte del figlio, comeché Diodoro, provetto gladiatore, di membra erculee, abbia ordine di freddare il suo avversario. Tusnelda fa di tutto per indurre Tumelico a fuggire … Non riuscendo a persuadere il figlio, che, educato dai Romani al servaggio, si vergognava di esser tedesco e barbaro, Tusnelda lo trafigge colla daga di Arminio; poi, presente Caligola, uccide sé medesima.”

Baldini, saggiamente ed elegantemente, ci mette al corrente che non esiste nessuna documentazione in merito, però … però, ad esempio, quell’astruso nome di Tumelico da dove derivava? In effetti non era un “nomen”, ma un “cognomen” che contrassegnava chi si esibiva pubblicamente come gladiatore e come attore e da qui viene naturalmente facile ed anche lecito collegare questo cognomen con la famosa scuola gladiatoria ravennate. L’ignominiosa morte nell’arena del figlio di Arminio come triviale gladiatore sarebbe, dunque, divenuta il vessato simbolo della rivincita sulla disfatta della Selva di Teutoburgo e una vergognosa macchia per la stirpe germanica.

A chiusura di questo coinvolgente saggio romanzato, poi, Baldini, ci propone una nuova “personalissima” ipotesi compatibile con la documentazione storica; riprendendo sempre gli Annali tacitiani, nell’XI libro si legge che i Germani, dopo la morte di Arminio, divisi in fazioni, cercarono disperatamente e inutilmente un nuovo capo unificatore e carismatico, infatti “se anche fosse venuto qui a regnare il figlio di Arminio, alleato in terra straniera, c’era di che essere sospettosi, perché infettato dall’educazione ricevuta, dalla disponibilità a servire, dallo stile di vita, insomma dalla mentalità straniera.”

E allora ecco farsi strada una soluzione dell’enigma Tumelico, non grondante romanticamente sangue e disperazione, ma molto più vicina a una storia di quotidiana desolazione: “Tumelico … forse visse una lunga e a noi sconosciuta vita a Ravenna, lontano dalla propria terra praticamente mai vista, completamente ignaro della propria origine e del proprio destino negato, oppure struggendosi nel dolore e nel rimpianto di non essere stato accettato dalla propria gente e di non aver potuto dimostrare di esser degno della grandezza e della fama del padre.”