È un piacere profondo, addirittura tangibile, per i guerrieri dell'epos quello di poter versare copiose le proprie lacrime. Perché, ben prima che lunghe ombre si levassero a oscurarne la dignità, Omero aveva fatto del pianto un immancabile attributo dei suoi eroi che senza freni e senza remore si concedevano di abbandonarsi al violento esplodere delle proprie emozioni, fossero esse scatenate da una rabbia incontenibile, da una nostalgia quanto mai struggente, dal dolore inconsolabile di una perdita.

Una voglia insopprimibile quella che sorge dentro ciascuno, un desiderio improcrastinabile e impossibile da lasciare insoddisfatto. Un richiamo impellente, tragicamente ammantato di fascino. Uno spazio da ritagliarsi e in cui rifugiarsi, una prerogativa da reclamare e da vivere a pieno, quasi un diritto cui appellarsi. Certo, niente a che vedere con i lamenti strazianti e inconsolabili delle donne, di coloro che dalla notte dei tempi la storia e la letteratura hanno eletto a paradigmi dell'eccesso da rimproverare, del disvalore da evitare; di coloro cui spetta una posizione sociale di secondo piano, anzi cui una posizione sociale deriva unicamente dai vincoli di parentela che le uniscono agli uomini che governano il loro destino, padri, fratelli, mariti; di coloro che quasi non hanno voce all'interno dei poemi, perché molto spesso la loro voce è ridotta a un inarticolato susseguirsi di gemiti, a un'inconcludente e assordante litania di singhiozzi, il cui potere tanto distruttivo quanto vano è condannato senz'appello persino da una donna, Elena, l'unica cui Omero conceda un'insolita autonomia di pensiero e di parola, la sola che osi proferire verbo senza essere interpellata da alcuno, lei che esperta di farmaceutici intrugli pone fine alla devastante malinconia del giovane Telemaco, giunto alla corte di Menelao in cerca di notizie sul padre, perché ben conosce di quale rovina quella malinconia possa essere foriera (Odissea IV).

Laddove il femmineo lacrimare sciupa i dolci lineamenti dei volti e consuma ogni bellezza svuotando i corpi della loro energia, gli uomini arrivano a nutrirsi del proprio gemere, a trarre da esso soddisfazione (come Odisseo che, solo “dopo essersi saziato di pianto”, interroga Circe sui dettagli della sua discesa nell'Ade, per conoscere dall'indovino Tiresia la via del ritorno; come Menelao che al ricordo delle peregrinazioni compiute prima del sospirato ritorno a casa a volte gode “nel saziare di pianto il proprio cuore”). Laddove rimane inconcludente il querulo piagnisteo di coloro che sono da sempre escluse dall'orizzonte dell'agire e incapaci di efficaci strategie (rovinoso per Odisseo rischia di essere l'erompere in pianto della nutrice e della sposa nel momento del ricongiungimento!), la vigorosa esternazione della propria sofferenza provoca spesso negli uomini il rinnovarsi della capacità decisionale, spesso diviene per loro propedeutica al concretizzarsi dell'azione. Laddove il ricorso alle lacrime si configura per vedove e orfane quale sterile dipendenza, feconde sono le lacrime dei soldati, potenti strumenti di redenzione capaci di riscattare anche la pena più cupa.

Nulla è più degno del pianto dell'uomo” esclama Zeus, osservando le lacrime che di fronte allo scempio del corpo di Patroclo sgorgano dagli occhi dei due bellissimi cavalli immortali da lui anticamente donati a Peleo, padre di Achille, in occasione delle sue nozze con Teti (Iliade XVII, vv. 436-447). Difficile immaginare omaggio più solenne all'unica specie vivente in grado di percepire il dramma della propria finitezza, di averne coscienza, persino di accettarlo; perché di fronte alla morte, nel momento della prova estrema e della solitudine più buia, quel liquido che sgorga dagli occhi e riga le guance accompagnato dal fragore di un animo che sembra andare in frantumi, si fa prova suprema della linfa vitale che ancora abita il corpo, ultimo baluardo in cui confidare, preziosissima risorsa da cui ripartire. Stupefacenti, dunque, sono le lacrime dei due superbi destrieri che non resistono all'attrattiva di quel gesto a loro così estraneo, ma soprattutto “calde” sono dette dal poeta, perché profondamente simboliche e piene di senso, così come “calde” sono descritte le lacrime maschili, ogniqualvolta si facciano ispiratrici di gesti tesi a conservare e a rigenerare la vita.

Come sapientemente illustrato da Matteo Nucci (Le lacrime degli eroi), “calde” sono le lacrime di Patroclo di fronte alla granitica ostinazione con cui Achille insiste nel tenersi lontano dal conflitto; eppure, sono quelle stesse lacrime a spingerlo in battaglia e, seppur a un prezzo altissimo, a smuovere infine il Pelide dalla sua immobilità. “Calde” sono le lacrime di Antiloco, perché ne acuiscono i sensi e la prontezza nell'impedire che Achille stravolto dall'angoscia si tagli la gola con il ferro. “Calde” sono le lacrime grazie alle quali Achille risale dal baratro della propria disperazione e attraverso il rito si riapre al domani, quel rito rigorosamente codificato nel quale trovavano spazio persino le donne e la loro voce, totalmente riabilitata nella coralità di quella lamentazione funebre che tanta parte aveva nel percorso di elaborazione collettiva di ogni lutto.

Finché mutarono radicalmente i quadri sociali e politici, e con essi i riferimenti culturali; finché altri scenari si affacciarono alla storia, e con essi altri valori; finché il pianto degli uomini divenne sconveniente e quello corale delle donne inaccettabile, l'ideologia civica della polis si arrogò il diritto di disciplinare l'uno e di sopprimere l'altro, e spettò al teatro il compito di portare in scena ciò che entrambi continuavano a gridare dai silenziosi recessi in cui erano stati confinati.