In memoriam redigo.

Più di duemila anni fa, il poeta latino Orazio (65 a.C. – 8 a.C.) scrisse queste parole: “La violenza sugli animali è la premessa e il tirocinio della violenza sugli esseri umani”. Sagge parole dalle quali sembra che l’uomo non abbia tratto nessun insegnamento.

Fino a qualche secolo fa, gli animali erano sfruttati in base alle necessità, senza farli riprodurre in cattività o peggio ancora, come ai nostri giorni, in batteria, con le tecniche più assurde e su larga scala: inseminazione artificiale, uso di ormoni per farli crescere in fretta e, nel caso delle mucche, con l’uso di sostanze, tra l’altro illegali, come la somatotropina bovina, un ormone geneticamente modificato, per incrementare, anche del 50%, la produzione del latte. Le fanno crescere le mammelle al punto che queste povere bestie non riescono più a deambulare, le poche volte che ne hanno la possibilità. Chi non ricorda, quando le mucche erano tenute nelle stalle delle nostre vecchie campagne e venivano utilizzare solo per lavorare la terra o per il latte che veniva distribuito casa per casa in cui c’erano dei bambini? Nonostante tutto, siamo cresciuti bene e in salute.

Un tempo, la caccia agli animali selvatici era meno cruenta di quella dei nostri giorni. Prima della scoperta delle armi da fuoco, la caccia era condotta con archi e frecce.

I cavalli e gli asini erano utilizzati principalmente per il trasporto o nelle guerre che comunque erano sempre limitate, al massimo con un migliaio di belligeranti muniti di spade e lance. Non esistevano armi automatiche e droni muniti di missili telecomandati.

E il paesaggio? Basta chiederlo a chiunque oggi abbia poco più di 50 anni, per sentirsi dire che il paesaggio, anche quello urbano, un tempo, era completamente diverso da quello attuale. Oggi basta andare in qualche periferia di una grande città, per chiedersi che cosa abbiamo fatto per meritarci questo! E le campagne? Hanno subito trasformazioni, che fino a qualche decennio fa, erano inimmaginabili. Sono state completamente stravolte.

Se Giacomo Leopardi dovesse ritornare in vita, dal colle dell’infinito non avrebbe più bisogno di immaginare “interminati spazi di là da quella e sovrumani silenzi e profondissima quiete”, “quella siepe che dall’ultimo orizzonte il guardo esclude”, siepe che, tra l’altro, non esiste più. Ora, da quel colle si possono vedere benissimo i Sibillini e tutta la valle del fiume Potenza e i “sovrumani silenzi” verrebbero interrotti dalle macchine che percorrono la sottostante strada statale! Su quel colle fino a qualche decennio fa, l’ambiente non era tanto diverso da quello contemplato dal poeta.

Obliterazione

L’uomo ha ridefinito il suo ambiente e anche la sua socialità. Questo processo è iniziato da poco e siamo giunti, probabilmente, a un punto di non ritorno. Il sistema unitario della globalizzazione ha obliterato la nostra mente, sta modificando la nostra cultura che era in equilibrio con la natura che non vediamo più come parte di noi stessi. Non sappiamo più fare un resoconto totale, o parziale che sia, delle esperienze passate, perché vogliamo vivere solo nel presente. Questa è la ragione per la quale molti bambini, anche se non tutti, a scuola hanno difficoltà a descrivere bene una loro esperienza passata in un tema.

Siamo in continuazione bombardati da informazioni, ma conserviamo solo quelle che ci sembrano più utili, o meglio, crediamo sul momento che lo siano. Siamo sempre più distratti perché condizionati da codifiche superflue, mentre la memoria dovrebbe essere esercitata, soprattutto quella di un bambino, in ogni momento della giornata, ma persino la didattica scolastica di oggi lo impedisce. Infatti, i bambini non imparano più le poesie a memoria, perché questo metterebbe in crisi la loro personalità e ostacolerebbe la loro creatività!

La reiterazione è scarsa e conta sempre di meno. La utilizziamo solo per futili necessità immediate e di routine. Siamo disattenti e i bambini lo sono ancora più degli adulti, mentre il livello di attenzione dovrebbe essere sempre alto. Di tutte le memorie di cui disponiamo conserviamo molto bene quella procedurale che è una memoria automatica, facendo venir meno quella decisionale e quindi cognitiva. Questo alimenta l’oblio e l’amnesia del paesaggio. I latini, che erano molto più saggi di noi, dicevano che “sapere è ricordare”.

Jared Diamond

Perché citiamo questo ricercatore americano e autore di saggi molto interessanti, come Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere pubblicato nel 2005? Diamond1 si domanda perché alcune grandi civiltà del passato, dopo avere raggiunto il massimo splendore, siano letteralmente scomparse. Di loro sono rimaste poche rovine e qualche monumento che hanno resistito all’incuria dei posteri. Tra queste antiche civiltà, le più interessanti sono quelle dei Maya dell’America centrale, della Grecia micenea, quella di Angkor Wat in Cambogia e capitale dell’Impero Khmer, quella Romana, per non parlare di quella Egizia. Tutte sono scomparse e alcune, per molto tempo, ignorate dagli archeologi. Diamond sostiene che le ragioni della loro scomparsa siano state diverse, ma tutte collegate tra loro: la deforestazione, la dispersione delle risorse idriche, lo sfruttamento continuo e forsennato delle terre, l’eccesso di caccia alla selvaggina e le invasioni di popoli vicini che ne hanno determinato il collasso.

Per quanto riguarda la caduta dell’Impero romano, che era già indebolito da tempo sia da un punto di vista politico che militare, i barbari nel 476 a.C. gli diedero il colpo di grazia. C’è però un esempio molto più recente che ci dovrebbe riguardare da vicino al quale dedichiamo poca attenzione, una catastrofe malthusiana, provocata, in questo caso, dalla guerra civile in Ruanda. Chi avrebbe potuto mai immaginare che in questo piccolo Paese potesse scaturire un genocidio di tale portata? Le cause scatenanti furono subito chiare e andarono al di là dell’odio razziale tra Hutu e Tutsi, le due etnie principali che condividevano lo stesso territorio, anche se con ruoli sociali abbastanza diversi. Sono stati i cambiamenti climatici che hanno fatto diminuire la produttività della terra che non era più sufficiente a sfamare tutta la popolazione del Ruanda. Che cosa hanno pensato i ruandesi quando hanno visto che il cibo non era più sufficiente per tutti? Hanno pensato di farsi la guerra, di uccidersi l’un con l’altro.

Che cosa hanno pensato gli abitanti dell’isola di Pasqua quando hanno tagliato sul loro territorio, l’ultimo albero rimasto? Non hanno pensato a niente e si sono estinti. Che cosa penseremo noi uomini del terzo millennio, quando arriveremo a 10 miliardi e non avremo più cibo per tutti? La risposta è facile da immaginare.

Convivenza

C’è bisogno di più convivenza, non solo di quella intraspecifica, che diventa sempre più difficile, ma anche di quella interspecifica e di sviluppare altri sistemi produttivi per non arrivare a una situazione simile a quella che si è creata in Ruanda. Sarà mai possibile? Con le politiche attuali, questa speranza è vana e il sistema economico globale non potrà reggere all’urto dell’aumento della popolazione mondiale. A un certo punto non sarà la nostra intelligenza e nemmeno la nostra tecnologia a salvarci. Dei nostri grandi progressi scientifici, spesso, ne abbiamo fatto un uso distorto. Per esempio, non è assolutamente vero che l’energia atomica sia utilizzata per sopperire alla richiesta di energia di tutta l’umanità, ma come deterrente per scongiurare una guerra nucleare planetaria.

Questa capacità di analisi manca all’uomo di oggi che ha perduto dei punti di riferimento fondamentali che invece avevano i nostri lontani antenati. Loro erano molto più sensibili alle trasformazioni ambientali che, tra l’altro, erano causate principalmente dalla forza della natura: cataclismi, eruzioni vulcaniche, terremoti, eccetera. Oggi è come se le cose, pur cambiando in peggio e a causa nostra, rimanessero sempre le stesse, ma così non è, come, appunto, suggerisce il titolo di questo saggio, perché abbiamo perso la memoria del paesaggio e ora il mondo è in bilico2.

Un esempio emblematico: il Brasile (e non solo)

Il Brasile di oggi si è inoltrato verso un sentiero nel quale si sta incamminando tutta l’umanità e che porterà alla distruzione del Pianeta. In questo Paese si sta distruggendo la foresta Amazzonica, il polmone del mondo (e non è un eufemismo), allo scopo di sostituirla con coltivazioni di colza e canna da zucchero, con la coscienza pulita delle autorità nazionali che si giustificano sostenendo che questo serve per sfamare la popolazione brasiliana in continua crescita, per creare biomassa alternativa, ma in realtà si fa per sfruttare le risorse petrolifere che si trovano all’interno dell’Amazzonia. Politiche di questo genere, non solo in Brasile, ma in Malesia, Indonesia, in India e in tanti altri Paesi del mondo, stanno radendo al suolo, solo negli ultimi decenni, milioni di Km2 di superficie forestale.

La deforestazione è uno dei mali principali della nostra umanità, ma noi occidentali, non ce ne preoccupiamo più di tanto oppure solo quando bruciano le foreste incendiandole con la benzina cospargendola dall’alto con gli elicotteri. Ce ne preoccuperemo di più quando sarà troppo tardi, cioè quando non avremo più ossigeno per respirare, quando l’inquinamento ci costringerà a stare in casa con le bombole di ossigeno (peggio del Coronavirus!). Tra qualche decennio in Brasile non esisterà più una foresta che potrà essere chiamata tale. Molti politici sconsiderati, non solo del Brasile, dicono che si possa ovviare con il rimboschimento, non pensando che per un rimboschimento globale, ci vorranno migliaia di anni e tanti soldi che, tra l’altro, nessuno vorrà spendere e se anche qualcuno volesse, non basterebbe il Pil dei Paesi più ricchi del mondo.

Conclusioni

C’è una città in Cina, al centro del Paese, che pochissimi conoscono, Chungking, che ha una popolazione di circa 36 milioni di abitanti: è come se più della metà della popolazione italiana fosse concentrata in una sola città! A Chungking c’è stata un’amnesia del paesaggio sconvolgente. I vecchi che ci vivono ricordano ancora quando era praticamente un villaggio di pescatori sul fiume Azzurro (Yangtze).

Un altro punto di riflessione dovrebbe essere quello sul consumo biotico che noi facciamo nel nostro Pianeta. Nel mese di agosto 2019 abbiamo esaurito tutte le scorte del capitale energetico planetario a disposizione, quindi dell’anno appena trascorso e quindi da più di 4 mesi abbiamo cominciato ad accumulare debito verso il 2020. Il fatto più grave è che, nel prossimo anno, non cominceremo ad accumulare debito ad agosto, ma a luglio e negli anni successivi si andrà ancora più indietro. Quando arriveremo al 1° gennaio di un anno molto vicino, sarà la fine del nostro Pianeta.

Questo succederà perché c’è una piccola minoranza di uomini e donne al mondo la cui logica è solo quella del profitto e dello sfruttamento ad ogni costo di tutte le risorse della Terra, con il concorso di una politica mediocratica planetaria, del consumismo, delle dittature, del nepotismo imperante, di cattivi maestri e scienziati ad uso e consumo delle multinazionali. Come dice Alain Deneault3: non ci può essere salvezza in un mondo in cui l’intelligenza sembra essere sempre disoccupata e l’insegnamento socratico sempre più precario. Tra questi mali devastanti, potremmo aggiungere anche l’amnesia del paesaggio che ha contaminato ognuno di noi.

1 Jared Diamond. Collapse. How societies choose to fail or succeed. Penguin Books Ltd., London, 2005 (tr. it. Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere. Einaudi Editore, Torino, 2005).
2 Angelo Tartabini. Il mondo in bilico. Mursia Editore, Milano, 2008.
3 Alain Denault. La médiocratie. Lux Éditeur, Montréal, 2015 (tr. it. La mediocrazia. Neri Pozza Editore, Vicenza, 2017.