Un paio di mesi fa il dibattito pubblico si è sensibilmente infiammato in merito all'utilizzo da parte del Governo della quanto mai generica definizione di “congiunti”, che nel quadro del progressivo allentamento delle misure restrittive precedentemente adottate per far fronte all'emergenza sanitaria in corso andava a definire le categorie di persone che sarebbe stato lecito tornare in qualche modo a frequentare. Le reazioni di sconcerto non si sono fatte attendere. Mai termine fu più passibile di vedersi variamente interpretato dando conseguentemente il via libera all'insorgere di interrogativi e di polemiche in relazione a chi effettivamente sarebbe stato compreso nel novero dei “frequentabili” e chi, al contrario, ne sarebbe stato escluso.

Si sono, quindi, moltiplicati elenchi via via aggiornati e sempre più dettagliati che in fasi successive hanno compreso i consanguinei (padri e madri, figli, fratelli e sorelle) e i coniugi (mariti e mogli, le coppie frutto di unioni civili, etero e omosessuali), gli affini (tutti i parenti acquisiti, zii e zie, nipoti e cugini, nonché i famigliari di un coniuge rispetto all'altro, dunque suoceri, generi e nuore, cognati), fino ai cosiddetti “affetti stabili” (ossia i fidanzati non legati da patto di convivenza né da unione civile). Nessuna parola, purtroppo, in merito agli amici.

Nel mare magnum delle catalogazioni e dei tentativi di risposta, una cosa è risultata subito evidente: accanto alla comprensibile e inevitabile urgenza di stabilire delle regole, ugualmente condivisa è stata la sensazione che qualunque tentativo di disciplinare in qualche modo l'universo delle relazioni non potesse che essere inadeguato, incompleto, insoddisfacente. Del resto, com'è anche solo lontanamente immaginabile pensare di riuscire a stabilire dei criteri capaci di interpretare il sentire di sessanta milioni di persone? Com'è ragionevolmente ipotizzabile credere che le tensioni di tutti si muovano indistintamente secondo le medesime direttrici? Com'è possibile tentare di quantificare in maniera oggettivamente misurabile e comprovabile la stabilità e la durevolezza di un qualsivoglia legame?

In effetti, non sembra davvero esserlo. Tra gli studiosi di filologia classica e gli appassionati di mondo antico, è noto l'aspro disappunto con cui Goethe si pronunciò contro l'autenticità di un gruppo di versi che a suo dire andavano indegnamente a sminuire la grandezza del personaggio di Antigone per come il grande Sofocle l'aveva ritratta fino a quel punto dell'opera immortale che ne reca il nome. Spesso arbitrariamente destorificata e celebrata quale sublime paradigma della resistenza a ogni tirannia, nonché quale imbattuto modello di fedeltà alle norme della tradizione o agli imperativi morali minacciati dalle autocratiche velleità del potere, raramente riconsegnata al suo ruolo storico di paladina delle istanze familistiche e della continuità dinastica nel contesto di una polis che andava affermando i nuovi valori civici, nell'ultimo accorato discorso con il quale difende il gesto di aver simbolicamente sepolto il corpo di Polinice a dispetto del divieto imposto dal re Creonte, ella così si pronuncia:

E ora, Polinice, ricevo questa ricompensa, dopo aver sepolto il tuo corpo. Tuttavia, secondo il giudizio di chi ha senno, io ti ho onorato giustamente. Certamente non avrei affrontato questa impresa contro il volere dei cittadini né se fossi stata madre di figli, né se si fosse putrefatto il corpo del mio sposo morto. E dunque, nel rispetto di quale costume [nomos] affermo queste cose? Una volta morto il marito, un altro avrei potuto averne; e avrei potuto avere un figlio da un altro uomo, se ne fossi stata privata. Ma ora che mio padre e mia madre giacciono nell’Ade, non è possibile che mi nasca un altro fratello.

(Sofocle, Antigone vv. 902-912)

Nondimeno, la critica pare oggi concorde nel riconoscere anche in quelle parole tanto discusse il frutto genuino del genio sofocleo. E il tragediografo non fu neppure il solo a mettere in bocca simili dissertazioni a uno dei suoi personaggi femminili più noti. Nel terzo libro delle sue Storie, Erodoto racconta come il re Dario, temendo si stesse progettando una congiura contro di lui, avesse fatto arrestare il nobile persiano Intaferne insieme a tutti i suoi famigliari; mosso a compassione dalle incessanti preghiere che la sposa del sospettato quotidianamente gli rivolgeva, egli infine concesse alla donna l'opportunità di scegliere quale dei suoi salvare dalla morte. Questa la sua risposta:

O Re, se la divinità lo volesse, potrei avere un altro marito, e altri figli, se perdo questi. Ma, dal momento che mio padre e mia madre non sono più in vita, un altro fratello non potrei averlo in nessun modo. Nel nome di questa ragione [gnome], ho operato tale scelta.

(Erodoto, Storie III 119)

Dichiarazioni molto forti, di fronte alle quali forse gli Ateniesi del tempo avranno storto il naso o nelle quali forse, invece, si saranno riconosciuti. Perché le due voci non fanno appello semplicemente a una volontà individuale, ma chiamano in causa principi condivisi, criteri di comportamento e di pensiero consolidati dalla tradizione, norme riconosciute dalla società e dalla legge. Perché tali modalità di argomentazione che istintivamente suscitano sconcerto e diffidenza, rispondono a loro volta a uno schema narrativo che ricorre in altri contesti culturali e non esclusivamente nell'ambito della produzione letteraria dell'antica Grecia, e che ogni volta ritorna nella forma di un ragionamento insolitamente arguto e stringente che in condizioni estreme di assoluta emergenza pretende che venga affermata la priorità di un'opzione sulle altre prospettate, laddove tutte siano ugualmente valide e la preferenza di una a discapito delle altre comporti risposte comunque difficili, del tutto discutibili, assolutamente disturbanti.

“Dilemmi parentali” li ha definiti Maurizio Bettini, che come ogni strumento di cui la letteratura è ricca rappresentano per gli antropologi preziosissime finestre spalancate sulle realtà di cui indagano i sostrati, di cui riflettono le strutture, di cui rielaborano l'evoluzione. “Dilemmi” che per i Greci del passato restituiscono l'immagine di una società complessa che da guerriera si è lentamente trasformata in contadina, che ha dato poi origine alle sue peculiari strutture cittadine e si è articolata in nuove forme di comunità e di convivenza; nella quale i vincoli di sangue hanno goduto di un primato indiscusso per moltissimo tempo, per entrare poi in conflitto con altre forme di sodalità e vedersene a fasi alterne storicamente surclassate, per conservarsi nell'immaginario comune quali paradigmi delle conflittualità più violente e insieme quali assoluti modelli di armonia e concordia; nella quale, nondimeno, l'unico antichissimo intramontabile termine philos insieme a tutta la sua famiglia lessicale (che in origine indicava gli ospiti allo stesso modo degli ospitati e che nel tempo ha sviluppato un legame preferenziale - poi mai perso - con la dimensione della consanguineità) è via via valso a indicare indifferentemente i commilitoni e i compagni di partito, i contraenti un patto o un'alleanza, i vicini di casa, i concittadini, gli amici, senza mai smettere di esprimere la sua fortissima valenza relazionale, l'idea di una reciprocità condivisa, di una fedeltà imperitura da ricevere e da ricambiare.

Chissà, probabilmente anche noi avremmo preferito che il Governo potesse ricorrere a un termine differente, maggiormente inclusivo, magari a una parola come “implicati”, che ben traduce l'antico philos e che rimanda a quella rete personalissima di vincoli di cui ciascuno si sente parte, senza il bisogno di ulteriori dettagli, senza il fastidio di inadeguate specificazioni aggiuntive, senza esclusioni, senza discrimine. Ma, come ogni “dilemma”, anche questa nostra condizione estrema di assoluta emergenza ha richiesto delle risposte, e, come di fronte a ogni “dilemma”, probabilmente non esistevano risposte che non fossero scomode, impopolari, controverse. Gli amici, quelli veri, sono sempre rimasti e pazienti hanno saputo attendere il tempo del ricongiungimento.