Il desiderio di schiavitù è un retaggio dell’abitudine ad esserlo stati nei secoli, la radice è la paura della libertà perché implica responsabilità di azioni, di decisioni. Siamo come bambini che ancora si affidano ad altri adulti di potere che gestiscano la loro vita. Ma non è sempre così o meglio non è così nelle società cosiddette selvagge, forse più evolute rispetto a quelle civilizzate?

Molti anni fa lessi un libro che mi affascinò davvero, Anarchia selvaggia dell’antropologo francese Pierre Clastres. Questo testo cerca di rovesciare il paradigma della filosofia politica occidentale, basato su un concetto fondamentale: ogni società umana si regge sulla coercizione politica e sulla presenza dello Stato. Clastres, invece, attraverso una serie di ricerche sulle società primitive e sulla loro organizzazione sociale, prende in considerazione un modello sociale caratterizzato invece non dalla presenza e nemmeno dall’assenza dello Stato, ma decisamente “contro” lo Stato che viene rifiutato da queste società tribali proprio perché determina divisioni. Nelle società primitive il potere appartiene al corpo sociale come unità indivisa e il capo paradossalmente non può nulla se non parlare per conto della comunità: infatti, quest’ultima, lo sorveglia in modo che il potere trascendente affidatogli non divenga dominio. Clastres vide proprio in quelle società selvagge un modello sociale alternativo a quello del mondo occidentale.

Da cosa ebbe origine il potere dell’uomo sull’uomo? Semplicemente perché l’uomo lo desidera.

Étienne de La Boétie, filosofo, scrittore, giurista vissuto nel ‘500, nel suo famoso Discorso sulla servitù volontaria, chiama “il tragico evento” il momento in cui l’uomo rinunciò alla propria natura, “l’esser nato per vivere libero”, scegliendo la servitù e la sottomissione, sacrificando la propria innata libertà per la nascita dello Stato. Pulsione di assoggettamento, desiderio innato o acquisito?

Cito alcune sue frasi che ritengo illuminanti:

Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte, sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato. Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? Siate dunque decisi a non servire più e sarete liberi!

Solo la libertà, gli uomini non la desiderano perché se la desiderassero essi l’otterrebbero.

Mentre per Clastres: “L'esempio delle società primitive ci insegna che la divisione non è insita nell'essere sociale, ma ha inizio con la nascita di quella istituzione di carattere politico, sociale e culturale che chiamiamo Stato, che esercita la propria sovranità ed è costituita da un territorio e da una popolazione che vi risiede. In altre parole, lo Stato non è eterno, ma ha una data di nascita... E la luce così gettata sul momento della nascita dello Stato renderà forse chiare anche le condizioni (realizzabili o no) della sua possibile morte”.

Certo il nostro antropologo di questo era convinto, che ci fosse la necessità di far morire questa Istituzione proprio perché tale organizzazione sociale condiziona i desideri individuali.

Un elemento descritto nel libro che mi ha colpito immensamente rimanda al tema del desiderio: nelle cosiddette “società selvagge” c’è una totale assenza del possesso, in quanto è impossibile che nasca il desiderio del possesso laddove non c’è desiderio di potere.

E questo mi sembra un fattore che le rende “avanzate”, proprio perché non avviene l’accumulo di beni ma lo scambio e il dono commisurato ai reali bisogni quotidiani da soddisfare: “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, in questo modo il possesso diventa irrilevante e inutile.

La società occidentale, di contro, è basata sul potere, sulle classi, sulle divisioni tra dominanti e dominati, sull’economia e sul mercato che inducono bisogni di possesso derivanti dalla sensazione di mancanza; compro una macchina potente perché sento di non esserlo, compro vestiti firmati perché credo di non valere abbastanza, mi identifico con l’oggetto perché proietto su di lui valori di cui avverto l’assenza e credo, illusoriamente, che possedendolo sarò apprezzabile. Si tratta di una Società in cui l’identificazione e la proiezione imperano.

I media inducono ipnoticamente a desiderare di possedere oggetti che rappresentano uno status per essere persone di successo: una bella casa, una bella macchina, bei vestiti, tutto un seducente paniere di prelibatezze e gioiellini dalla luce accecante che offrono l’illusione di felicità a suon di spot accattivanti e mesmerici.

Così il possesso non si limita alle cose, agli oggetti, ma si estende anche alle persone con gli effetti collaterali che tutti ben vediamo nella società, si può affermare così che il mercato dirige i desideri attraverso bisogni indotti.

Eppure anche possedendo gli oggetti non cessa la bramosia dell’individuo, che si sente infelice e ricerca nuovi oggetti da possedere non accontentandosi mai ed entrando in un ciclo di desideri incessante. Da dove nasce questa sofferenza psichica?

La sofferenza psichica nasce allorché ci si allontana dalla legge del desiderio, da quella forza che non si placa con la soddisfazione, né si accontenta dei beni materiali o del successo. Accade che si smette di desiderare per sé stessi e si prende un’altra direzione allontanandosi dai propri sogni e rinunciando ai propri talenti.

La stessa etimologia del termine desiderio - dal latino de-, e sidus, "stella", letteralmente, "cessare di contemplare le stelle a scopo augurale", ci spiega come esso rappresenti la sensazione di assenza di una presenza: contiene una parte di dolore che deriva dal constatarne l’assenza. Infatti, si arriva ad osservare le stelle in attesa speranzosa di qualcosa che si percepisce assente ma che si vuole sia presente nella propria vita. Dietro il desiderare vi è la primordiale ricerca dell’unità, una sorta di spinta all’emancipazione dalla dualità.

Nell’atto del desiderare è già presente l’oggetto del desiderio, non importa se verrà raggiunto, ciò che conta è l’energia “desiderio” che si autoalimenta in un ciclo continuo, come una sorta di carburante che spinge l’uomo verso una meta, che traccia il percorso per giungere ad essa. È indispensabile, però, sapere per quale motivo si arriva a desiderare proprio quella cosa, quale parte della persona si cela dietro quello specifico desiderio che mette in moto le azioni per raggiungere la sua soddisfazione: che avvenga o meno è irrilevante nel meccanismo del desiderio, ciò che ha rilevanza è l’atto stesso del desiderare.

Gli studi sulla deprivazione materna hanno messo in luce che la soddisfazione dei bisogni primari non è sufficiente alla vita, ma è necessaria la presenza dell’altro, della relazione. Come teorizzò Sigmund Freud, si desidera qualcosa di perduto. Nel neonato un bisogno fisico come la fame, determina uno stato di tensione ed eccitamento che viene soddisfatto dalla presenza di un altro soggetto: la madre che offre il seno che lo nutre e placa il suo bisogno. Per Freud, pertanto, il desiderio è la percezione di questo soddisfacimento. Il desiderio nasce quindi dall’assenza di qualcosa che è stato sperimentato come gratificante attraverso il ricordo di quella esperienza, è l’azione psichica che tende a ricostruire la situazione originaria. Eppure ancora questo non basta: il neonato sazio continua a ricercare il seno materno, il suo calore, la sua presenza, la relazione significativa, intrisa di valore, questo determina il desiderio più che la soddisfazione del bisogno fisiologico.

La meta del desiderio non è paradossalmente il suo soddisfacimento, altrimenti cesserebbe il desiderio stesso, ma il desiderare, trovare il nuovo nello stesso. In questo Sant’Agostino ci illumina quando afferma che: “La beatitudine è desiderare ciò che si ha”. Come avviene quando traiamo godimento dal guardare un tramonto, un fiore, un bambino che gioca, il volto della persona amata, uguali ma sempre diversi perché il nostro sguardo amorevole aggiunge piacere al piacere stesso.

Pensiamo all’amore la cui parola è “ancora”, come afferma lo psicoanalista Lacan, ne desideriamo sempre di più, ci nutriamo di esso nel cerchio perfetto del nostro sguardo sul mondo e i sugli oggetti. Ancora secondo Lacan il desiderio è la presenza di una mancanza, la percezione di essere incompleti senza. L’inconscio è intelligente e segue la logica del desiderio che orienta l’essere nel mondo e come quest’ultimo è concettualizzato.

L’energia propulsiva, creativa del desiderio è il motore del mondo, di noi stessi, ma è necessario riconoscerla, accoglierla con sguardo carezzevole, osservare i nostri desideri. E bisogna anche rendersi conto se essi sono allineati con quella che Deepak Chopra chiama “infinita intelligenza della natura”, ossia essere consapevoli sia della natura dei nostri desideri sia dell’effetto che la loro soddisfazione avrebbe per noi, per l’intera umanità e per il pianeta in cui viviamo.

Insomma nella nostra società occidentale guidata dalla mente, la separazione dei due emisferi celebrali, quello sinistro responsabile della razionalità e quello destro legato invece all’intuizione e alla conoscenza innata, ci rende difficile essere collegati alla Natura. Allora girando lo sguardo al mondo orientale vediamo che le filosofie orientali offrono una chiave di lettura interessante, secondo cui occorre desiderare senza voler possedere, senza attaccamento. Il Maestro Siddartha si rese conto che desiderare non è male, infatti il dolore e la sofferenza nascono semmai dal desiderare con attaccamento, dalla brama che nasce dall’oggettivazione. Perché si arriva a considerare come un’ancora di salvezza senza la quale non possiamo vivere oggetti o persone atti a soddisfare i nostri desideri: ci sembra che pongano fine alla sofferenza, ma si tratta solo di una pura illusione.

Per Siddharta Gautama - Buddha “dall’attaccamento sorge il dolore, dal dolore sorge la paura. Per colui che è totalmente libero, non c’è attaccamento, non c’è dolore, non c’è paura”.

Inoltre, la filosofia Zen ci suggerisce di vivere il momento presente; quando desideri desidera semplicemente, senza proiettare il tuo ego, senza voler possedere, questo è il vero scopo della ricerca della felicità e, soprattutto, una volta raggiunto l’oggetto che soddisfa quel desiderio bisogna saper lasciare andare l’oggetto stesso.

E allora cosa sarebbe opportuno fare per stare in pace con sé stessi?

Bisognerebbe imparare a desiderare, non inseguire il godimento effimero e fugace che svilisce e svuota l’esperienza della vita!!!

Il disagio di questo tempo è proprio quello che deriva dall’equivoco di scambiare il desiderio per il godimento, ma che qualità ha una vita senza desideri?

L’individuo coincide con i suoi desideri, e se il desiderio fonte di tutti gli altri fosse ricongiungersi con la Somma Intelligenza, il Campo Unificato, la Coscienza Universale?

Con la sua ironia lo scrittore Oscar Wilde ci ammonisce con uno dei suoi Aforismi:

Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo.