Dei due gemelli Castore e Polluce il mito racconta innumerevoli imprese. Abilissimo domatore di cavalli il primo, pugile imbattibile il secondo, essi parteciparono alla spedizione degli Argonauti, distinguendosi nella ricerca del Vello d'Oro e nella caccia al cinghiale Calidonio, salvarono la sorella Elena rapita dal re Teseo, fondarono città e altre ne distrussero. A dispetto del titolo “Dioscuri” con il quale erano noti e che li identificava quali “progenie di Zeus” (da Dios e xoupoi), pare che Castore fosse figlio di Tindaro e, dunque, di natura mortale. E proprio la morte di Castore divenne nella leggenda l'occasione per celebrare quel vincolo armonioso e pieno di complicità che li aveva tenuti uniti per tutta la vita. Desideroso, infatti, di rimanere accanto all'amato fratello, Polluce rinunciò alla propria condizione di immortale, tanto che Zeus lo premiò concedendo che i due trascorressero l'esistenza a giorni alterni tra Ade e Olimpo. Secondo altri, invece, essi ottennero di vivere eternamente nel cielo all'interno della Costellazione dei Gemelli.

Eppure, a dispetto di quanto una certa retorica potrebbe indurre a credere, un simile esempio di fratellanza rimane pressoché un unicum nel panorama mitologico di tutta quanta la civiltà ellenica.

Autrice di testi che le hanno meritatamente guadagnato un posto di rilievo nel panorama scientifico internazionale, Nicole Loraux (prematuramente scomparsa nel 2003) aveva dedicato gran parte delle sue ricerche sul mondo antico all'indagine dei grandi temi legati alla politica e conseguentemente alla famiglia, di cui i primi costantemente si nutrivano. Storica della città greca, specialista in filologia, esperta di scienze sociali e antropologa, ella aveva mosso i primi passi dalla complessità incarnata dal personaggio e dalla vicenda di Antigone, via via concentrandosi con acume e passione non comuni sull'intricato legame che la dimensione del femminile intrecciava con la vita all'interno della polis, sulle inevitabili sovrapposizioni e sugli irrisolvibili sconfinamenti nei quali “privato” e “pubblico” si trovavano eternamente implicati, sugli esiti fortemente ambivalenti in cui sfociava la rappresentazione che gli Ateniesi davano della loro città ritagliandola sul modello dell'oikos e delle sue relazioni.

Immancabile oggetto di ogni comunicazione ufficiale e autentico fulcro di quel potentissimo strumento di propaganda che fu l'orazione funebre, l'insistito richiamo all'effettiva parentela che legava tutti i cittadini in qualità di individui “nati dalla stessa terra” (mito dell'autoctonia) operava indubbiamente al servizio dell'ideologia civica nell'ottica di un rafforzamento dell'immagine pervicacemente idealizzata di un'Atene “una e indivisibile”. Nondimeno, quella stessa potentissima figura della consanguineità, che rimossa dai discorsi del potere s'imponeva in primis nel teatro quale luogo delle efferatezze più atroci e dei più innominabili orrori, finiva per minare la credibilità stessa di una tale illusoria finzione; fallaci, pertanto, non potevano che risultare i reiterati tentativi con cui i Greci si sforzavano di dissimulare la natura profondamente conflittuale del loro vivere politico, di nascondere innanzitutto a loro stessi che proprio nelle dinamiche del dibattito e della votazione (pratiche tutte che per definizione imponevano di prendere parte, di schierarsi, di dividersi) emergeva l'essenza più vera del loro essere comunità, di passare sotto silenzio il dramma della guerra civile che li aveva travolti vietandone addirittura la memoria.

Così, a partire da Eteocle e Polinice (disgraziati figli di Edipo, che si diedero reciprocamente la morte alle porte di Tebe), per arrivare ad Atreo e Tieste (sfortunati figli di Peleo, il cui tremendo destino, da sempre segnato dall'odio e dall'invidia, si compì nella violenza estrema, quando uno imbandì all'altro le carni dei suoi stessi figli e quello inconsapevole se ne cibò), passando per Egitto e Danao (che videro i propri figli e le proprie figlie sprofondare nella prepotenza e nella strage, vittime designate della pesante eredità di inimicizia che i rispettivi padri avevano trasmesso loro), numerosissime sono le testimonianze che confermano l'assoluto dualismo insito in ogni vincolo fraterno, paradigma non solo del sangue che più e prima di altri è capace di unire, ma anche di quello che più e prima di altri è condannato a essere versato.

Un motivo archetipico questo che ricorre nelle mitologie di moltissimi popoli, che ritorna nel patrimonio fiabesco di moltissime culture primigenie. Basti pensare a cosa rappresentassero Osiride e Seth per gli antichi Egizi, simbolo il primo delle forze civilizzatrici dell'ordine, soffocato dentro un sarcofago e poi smembrato per mano del secondo, incarnazione della potenza devastatrice del caos. O agli innumerevoli esempi contenuti nell'Antico Testamento che tante pagine dedica alla narrazione delle gelosie e delle rivalità che divisero - tra gli altri - Giuseppe dai suoi fratelli, e prima ancora Giacobbe da Esaù, e prima ancora Caino da Abele, ponendo sotto il marchio dell'odio e dell'assassinio l'inizio stesso della storia del genere umano sulla Terra. O ancora alla leggenda di Romolo e Remo che, non diversamente dal racconto delle Sacre Scritture, collocava un fratricidio agli albori della civiltà di Roma.

Un motivo assolutamente feriale e allo stesso tempo di una problematicità estrema, che fin dagli albori dei tempi non ha mai cessato di riproporsi nella sua scandalosa naturalità. Un sapere ancestrale che nel corso dei millenni ha silenziosamente plasmato l'inconscio collettivo, senza mai smettere di interrogare l'uomo sulle ragioni ultime del suo esplicarsi. Una questione alla quale le scienze sociali e psicologiche, la filosofia e l'antropologia non hanno mai rinunciato a trovare delle risposte e che si è ritagliato un ampio spazio negli scritti di tanti grandi del pensiero. Un tema, quello della rivalità tra fratelli, dietro cui si è sempre celato un altro grande tema, non meno centrale e altrettanto fondativo di ogni comportamento umano, quello della paura con tutte le sue infinite declinazioni; la paura del buio e delle violente manifestazioni della natura, la paura di non avere cibo a sufficienza e di non trovare un riparo, la paura del dolore e della perdita, la paura della morte che tutte le abbraccia e le riassume. Un tema, infine, che ha sempre avuto molto a che fare con il desiderio dell'affermazione di sé e della propria specificità, con la ricerca della propria identità e la tensione alla sua piena realizzazione, con il bisogno di relazionarsi all'Altro nell'urgenza del confronto e del riconoscimento della propria differenza, urgenza che - come ha magistralmente teorizzato il grande René Girard - diviene tanto più ardua quanto più simile e affine a sé si rivela quell'Altro con cui si è chiamati a confrontarsi e da cui ci si deve differenziare.

Tra la gente della mia terra circola un famoso proverbio che recita così: “Amùr de fradèi, amùr de cortèi”. Non ne serve una traduzione, è una verità vecchia come il mondo, immediata e lapidaria nella sua minimale essenzialità, implacabile nella tangibile evidenza che solo le sentenze popolari riescono ad avere; è una verità scomoda da cui si è istintivamente portati a prendere le distanze presumendo (o forse sperando) di esserne immuni, ma che rimane lì, incancellabile e irrisolta, come tutte quelle verità scomode dalle quali ci si senta in realtà inconfessabilmente interrogati.