Quest’anno, la celebrazione della Giornata della Memoria si arricchisce di una testimonianza artistica che condensa, su tela, una storia affascinante e unica come la storia del popolo ebraico. Ripercorrerla è doveroso per approfondire le nostre radici, essendo indiscusso che l’Europa sia cristiana e che il cristianesimo abbia nei “fratelli maggiori” ebrei la propria culla. La condivisione del Dio unico, l’unicità di messaggio che veniva portato da ogni ebreo, ha costruito un sentire e un sapere che, troppo spesso, non è mai approfondito, non è conosciuto. Rimane soltanto un modo di porsi in un giorno, tra fotografie, mostre, ricordi, gite scolastiche, che per i più restano senza spessore. Bisogna leggere e studiare ma, soprattutto, andare incontro a quei fantasmi che vengono agitati a seconda dei momenti e che ancora ci spaventano: perché non sappiamo troppo di cosa sono, e perché sembra che la maggior parte dei componenti dell’opinione pubblica tema le risposte a domande latenti, mai davvero poste.

L’arte sintetizza gli scritti, dà colore alle parole scritte in nero su foglio bianco. È capace di tramutare millenni di storia in un soffio e di fare scendere nell’animo quelle frasi che mancano anche ai migliori oratori. In questo caso, è l’arte di Ivo Compagnoni1 ad aiutarci a comprendere. Una serie di quadri sono stati appositamente realizzati per identificare su supporto di tecnica mista i dolori, la storia, le speranze, il futuro degli Ebrei. Un ricciolo di filo spinato che imbriglia un pezzetto di stoffa, ricorda le persecuzioni, tutte, e la volontà di fuggirvi, di andare oltre. Una stella un po’ gialla e un po’ rossa, ricorda il simbolo che gli ebrei dovevano portare, nei tempi, per farsi riconoscere: a volte una rotella, o un grembiule, o un berretto, o uno scialle. Dovevano essere riconoscibili perché non si avesse niente a che fare con loro, in modo da non venire “contaminati”. La contraddittorietà con la quale gli ebrei venivano vissuti è reale, ma anche simbolica. Il popolo eletto non voleva riconoscere i faraoni come divinità; non voleva riconoscere gli dei degli altri, o la somma autorità dell’imperatore, anch’egli quasi divinizzato. Non si confondeva quando lo si ingiuriava: doveva sopportare ed elevare la propria preghiera a Dio, nella speranza di venire perdonato per la propria piccolezza umana.

La preghiera, in una tela di Ivo Compagnoni, è un girasole che si eleva sulla tragedia del sopruso e della persecuzione, e mantiene il capo ritto malgrado la fatica di vivere e sopravvivere. Mantiene il proprio colore, anche se attorno c’è soltanto prevaricazione. Un insegnamento che non è circoscritto ad un popolo, ad alcuni appartenenti ad una religione, ma che è proprio dell’umanità anche quando questa stessa non riconosce che dagli ebrei ha imparato una parte di sé, com’essi sono. Il quadro Shoah mantiene i colori caldi della terra, raffigurando quanto si rimane basiti davanti alla disperazione, eppure è nella tela I numeri della memoria che le parole diventano quadro e il quadro l’arte di affermare storia e verità, quanto non si deve mai più ripetere. E non soltanto per gli Ebrei: per ognuno, ciascuno, sempre, ovunque. I numeri della memoria sono una poesia di Renato Hagman che ha scandito uno dei capitoli della storia ebraica, la Shoah appunto, in un ricordo di bambini con il braccio tatuato da un numero.

Le parole sono impresse nella tela, su uno sfumato azzurro carico di quella profonda capacità di guardare al cielo, oltre l’umano, mentre una stella gialla campeggia tra i ricordi e tra i reticolati della nostra memoria.

1 La riproduzione delle opere è inserita nel volume dell’Istituto del Nastro Azzurro, edito da Nuova Cultura (Roma) con il titolo Il diverso, tra passato e futuro. La giudeofobia nella nostra società.