Era un vecchio Sadu, lo conoscevo da anni, ma solo quel giorno mi si rivelò per tutta la sua saggezza. È anche vero che sul momento non me ne resi conto, non capii la portata di quell’incontro.

Per salire all’Hanuman Temple bisognava avere proprio voglia di arrivarci. Oggi, a sessant’anni non ci andrei di certo. Una salita difficile su rocce a strapiombo sul letto del fiume Krishna, che scorre un centinaio di metri più in basso in un paesaggio creato da grossi massi di granito arrotondati dall’azione lenta, ma costante dell’acqua. Lungo le sponde del fiume negli anni ’70 e fino alla fine degli anni ’80, si stabilivano gli hippies occidentali, che trovavano ricovero negli anfratti naturali tra le rocce e vivendo di ciò che riuscivano a pescare nel fiume e di un po' di riso.

Ogni tanto mi fermavo per riprendere fiato e ogni volta lo stupore del paesaggio lunare che si presentava ai miei occhi riusciva a sorprendermi. Che bello potersi sorprendere sempre della stessa cosa!

Salendo avevo incontrato il giovane chela del Sadu, ma non sapevo che lo fosse. Per me era uno dei tanti strambi hindu che fermano qualunque turista gli capiti a tiro per scroccare qualche rupia o un cilum da dedicare a Shiva o Vishnu, a seconda della fazione per cui parteggiano. Dato che eravamo solo io e lui su tutta la montagna di rocce non potevo sfuggirgli. Ma lui, stranamente, non mi chiese soldi o da fumare. Semplicemente mi accompagnò dal suo guru.

È assurdo, mi è capitato altre volte di imbattermi in situazioni simili e ogni volta i locali riescono a stupirmi: io con tecnologiche scarpe da trekking arranco per non farmi lasciare indietro da loro che sono a piedi nudi o, al massimo, calzano un paio di logore infradito. Una volta, sulle pendici dell’Annapurna, fui addirittura umiliato da un pastore più anziano di me, poliomielitico e a piedi scalzi. Così il giovane chela, coperto dal suo consunto dhoti, doveva fermarsi frequentemente per aspettarmi.

L’Hanuman Temple mantiene fede al suo nome. Hanuman, il dio dalla testa e la coda di scimmia, fedele servitore di Rama, che trasportò una montagna intera dall’Himalaya a Sri Lanka perché sulle sue pendici crescevano erbe in grado di curare l’esercito malconcio di Rama e non sapendole distinguere, per non sbagliare, la portò tutta con sé. Tutt’attorno al tempio era un pullulare di eleganti e temutissime scimmie dal muso nero e il pelo grigio, langur, con la lunga coda che serve loro da frusta o da appiglio, a seconda delle esigenze.

Una tranquillità assoluta circondava quel posto in cima alla montagna. L’edificio era mal ridotto, una piccola casupola con all’interno la stanza della Murti, l’immagine di Hanuman. In mezzo all’unica stanza una branda con il telaio di legno e la rete di corda intrecciata. E il Sadu che dormiva.

Tutto va troppo veloce; investiti da una tempesta continua di eventi, di impegni, di preoccupazioni senza fine. Stravolti non siamo più noi. Non ci sentiamo più, non ci conosciamo. Non ci vogliamo conoscere. Non un’ora, un minuto, un attimo per fermarci, per ascoltare, per ascoltarci.

Alla fine degli anni ’70, come molti della mia generazione, fui affascinato dalla controcultura giovanile che si stava affermando negli Stati Uniti, che si era diffusa in tutto il mondo e che sembrava potesse essere l’inizio di una nuova era. Avrei fatto di tutto per poter essere lì, dove tutto stava succedendo e dove tutto era cominciato. Lasciai gli studi e una brillante carriera professionistica da pallavolista per imbarcarmi su un mercantile che salpava da Genova per andare a New York, con la mansione di apprendista macchinista, tanta era la mia voglia di essere dove tutto stava accadendo, almeno così mi sembrava all’epoca. Quando mio padre lo scoprì mi propose di andarci per un paio di mesi da turista, avrebbe pagato lui il viaggio. Abbandonai in un attimo l’idea di imbarcarmi.

Feci così il mio primo grande viaggio oltre oceano. Tanti aspetti dello stile di vita americano, il famoso “american way of life”, mi stupirono e affascinarono, soprattutto quello californiano; per esempio, tutti sembravano conoscerti da sempre. Quando andavo a fare colazione, ogni volta in un posto diverso, mi salutavano cordialmente o mi porgevano il giornale chiedendo una mia opinione sulla tal notizia del giorno. Stessa cosa la riscontrai molti anni dopo in Australia. Poi per un appassionato di musica, quale sono sempre stato, sembrava di essere nel paese dei balocchi: ogni sera e in ogni angolo un concerto diverso, il più delle volte gratuito. Ma anche un altro aspetto attirò la mia attenzione: già allora, in California, si poteva fare la spesa stando comodamente seduti a casa, telefonando al supermercato che te la recapitava al tuo domicilio e avevi già pagato il conto senza estrarre il portafoglio di tasca, tramite l’addebito sulla carta di credito, quando in Italia la carta di credito ce l’avevano in pochissimi. Ai miei occhi di diciannovenne quello era il futuro. Quanto tempo risparmiato. Aggiungete a questo il fine settimana lungo - dal venerdì pomeriggio fino al lunedì mattina successivo – e l’idea di un mondo dove l’uomo avrebbe avuto sempre più tempo da dedicare alle sue passioni, a tutto ciò che non è lavoro, sembrava potersi concretizzare.

Quarant’anni sono passati e non solo quel futuro non è mai arrivato, ma oggi abbiamo sempre meno tempo a disposizione, non solo per le nostre passioni, ma anche per portare a termine le nostre incombenze lavorative. Si pensava che la diminuzione delle ore di lavoro sarebbe stata inversamente proporzionale all’aumento della tecnologia. Avremo avuto tutti più tempo a disposizione da dedicare alle nostre famiglie, per coltivare i nostri hobbies, per viaggiare, leggere, studiare ciò che veramente ci interessa, più tempo per vivere. E invece eccoci qua, con una catena invisibile (wireless) che ci lega alla nostra scrivania, tutto il giorno davanti ai computer, collegati ventiquattro ore su ventiquattro, sudditi fedeli dello smartphone, anche una volta tornati a casa. È questa la tecnologia che ci dovrebbe liberare dalla schiavitù del lavoro, quando in realtà non si ha tempo per fare nulla se non lavorare?

Mia mamma insegnava Lettere e Storia dell’Arte, mio padre era un giornalista e, in quanto tale, non aveva orari: oltre ad essere direttore di un giornale da lui fondato era anche corrispondente di alcuni quotidiani a tiratura nazionale. A volte tornava a casa con alcuni suoi colleghi a notte fonda a parlare di politica. Per cui i figli li ha cresciuti mia madre. Nonostante, oltre a lavorare, dovesse provvedere a tutte le faccende domestiche, lavare, stirare, fare la spesa, pulire casa, non ricordo di essere stato lasciato alla custodia dei miei nonni, se non in casi rarissimi. Ma questa non era una condizione particolare della mia famiglia, anzi. Nella maggior parte dei casi le donne, le mamme, non lavoravano nemmeno. Certo erano impegnate tutto il giorno nelle faccende domestiche, ma non erano retribuite per farlo e potevano accudire ai propri figli. Oggi se non ci fossero i nonni i figli crescerebbero per strada. Con i genitori che finiscono di lavorare alle 18/18,30 e, di norma, hanno almeno un’ora di strada da fare per raggiungere casa, chi potrebbe andare a scuola a prendere i ragazzini, chi li porterebbe al doposcuola oppure dal medico o in piscina o in palestra o a casa dell’amico a studiare e chi li riporterebbe a casa se non i nonni? E questo lo chiamiamo progresso.

Non abbiamo mai un attimo di pace. Sempre indaffarati. Con mille impegni improrogabili. Tutti importantissimi. Il telefono ormai ci segue ovunque. Se usciamo di casa senza ci sentiamo persi. Se non suona ci preoccupiamo. Se non riceviamo messaggi controlliamo se funziona. Sempre connessi. Sempre on line. Per cosa? Perché?

Eppure io credo che se ci fosse un po' più di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio…

(F. Fellini, La voce della Luna)

Quando il suo chela lo svegliò lui non disse una parola. Semplicemente si mise seduto sulla branda e mi guardò. Beh, non proprio, dato che era cieco. Eppure sembrava proprio che stesse rivolgendo il suo sguardo verso di me, anzi, sembrava che mi fissasse negli occhi. Sembrava che sapesse chi fossi, che mi “vedesse”. Possibile? Perché no. Questa è gente che fa cose veramente strane. Alcuni di loro stanno anni chiusi in una grotta senza mangiare e senza bere, fermi nella stessa posizione, in samadhi. Altri si fanno seppellire per mesi e poi li tirano fuori vivi e vegeti. Ho visto con i miei occhi uno di loro far sgorgare dalle sue mani la cenere. E non sapeva che io sarei andato da lui, non avrebbe potuto prepararsi per stupirmi con un trucco. Stava semplicemente nel suo ashram sul fiume quando io entrai per chiedergli ospitalità. Non poteva sapere che sarei arrivato, almeno credo. Sta di fatto che pochi minuti dopo stavamo conversando su quanto gli occidentali si facciano abbindolare dai falsi maestri indiani, come il nuovo Sai Baba, pace all’anima sua, che in quel periodo dispensava miracoli come se ne avesse un sacco pieno da cui attingere, tipo, appunto, il profondere cenere dalle proprie mani. Fu allora che il “mio” Sadu disse: “Beh, non è nulla di che” e cominciò a far piovere cenere dalle proprie mani, proprio davanti alla mia faccia, a due centimetri dai miei occhi. La scienza deve ammettere che l’universo è magico.

Il mio amico Sadu cieco sembrava proprio guardarmi negli occhi o forse ancora più dentro. Restammo in silenzio per molto tempo, interrotti solo dal suo chela che ci portò il chai. Un silenzio assoluto inondava la stanza e un lieve vento tiepido entrava dalle finestre senza serramenti, facendo ondeggiare lievemente alcuni brandelli di quelle che una volta erano state le tende. Anche le scimmie stavano in silenzio, cosa veramente rara e strana. Tutto era quiete. I sensi erano in pace. Solo l’olfatto era stimolato dal profumo dell’incenso al sandalo che bruciava tra le offerte alla Murti.

Non so quanto restammo in quella beatitudine ovattata, abbastanza da dimenticarsi del resto dell’universo. Non esisteva altro.

A parte, forse, la vaga probabilità di esserci.