La lettera enciclica che presento affronta una varietà di temi ed offre una profondità di analisi che è impossibile riuscirne a sintetizzare in poco spazio il suo contenuto. Cercherò pertanto di soffermarmi soltanto su un aspetto, apparentemente “secondario”, ma ricco di spunti anche pratici: quello della “gentilezza”. Del resto, questo Papa ci ha abituati proprio a tenere insieme grandi prospettive e profonde argomentazioni con risvolti concreti e suggerimenti operativi (dimostrando il suo “metodo” da gesuita, per cercare di studiare i problemi e tentare di offrire pragmatiche indicazioni, con grande capacità di ascolto ed efficaci sintesi interpretative della realtà).

Prima di tutto, vorrei ricordare, più in generale, che una “lettera enciclica” è una sorta di “lettera circolare” del Papa su materie dottrinali o morali indirizzata a tutta la cristianità; e che proprio per la provenienza papale del documento rientra nell’insegnamento ufficiale della Chiesa (c.d. “magistero”). Come curiosità storica, la prima Enciclica (anche se già nei primi secoli venivano redatte delle “lettere” più o meno analoghe) risale al 1740, e sino ad oggi ne sono state pubblicate ben 325 (compresa questa, che è la terza di Papa Francesco).

Come dicevo, questa lettera enciclica Fratelli tutti (“sulla fraternità e l’amicizia sociale”, firmata ad Assisi lo scorso 3 ottobre) tra i molti argomenti - diritti umani; globalizzazione; pandemie e flagelli della storia; problemi della comunicazione digitale; libertà, uguaglianza e fraternità; nobile vocazione della politica; organismi internazionali; dialogo e amicizia sociale; cultura dell’incontro; percorsi di pace; condanna della guerra e della pena di morte; le religioni al servizio della fraternità – si occupa anche della virtù della gentilezza.

Il Papa osserva preliminarmente che “senza il rapporto e il confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di sé stessi […]. Guardando sé stessi dal punto di vista dell’altro, di chi è diverso, ciascuno può riconoscere meglio le peculiarità della propria persona e della propria cultura: le ricchezze, le possibilità e i limiti" (n. 147). Dunque, “la vita è l’arte dell’incontro, […] è uno stile di vita che tende a formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ricca di sfumature, perché il tutto è superiore alla parte” (n. 215). Ecco allora che dobbiamo armare “i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!” (n. 217). Nei rapporti interpersonali perciò dobbiamo esercitare la virtù della gentilezza: la quale non è un atteggiamento superficiale o borghese; “dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita” (n. 224). La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri a portare il peso dell’esistenza, in quanto comprende il “dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano” (n. 224).

Del resto, la Bibbia è chiara sul valore della parola: “V’è chi parla senza riflettere: trafigge come una spada; ma la lingua dei saggi risana” (Proverbi 12,18). Recuperare allora la gentilezza, vuol dire vivere più a fondo “l’arte dell’incontro”, ben sapendo che Cristo ci “ammonisce a non camminare sulla strada della carità solamente nelle grandi cose, bensì e soprattutto nelle circostanze ordinarie della vita” (così il Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 38, a). Quando riusciamo ad amare gli altri – pur talvolta esposti alla umana fragilità e debolezza – siamo in realtà molto “forti” e sereni, perché siamo maggiormente sintonizzati al cuore stesso di Dio, in quanto (come precisa la 1a Lettera di Giovanni 4,8) “Dio è amore”!