In questo nostro cammino, dalla Aleph alla Tau, non possiamo essere sempre felici.
Chi promette felicità ogni giorno o è un manipolatore - e nei vicoli bui dei nostri pensieri vuole spacciarci una dose di falsa speranza che chiama piacere - o non conosce la natura umana, che è sempre policroma, variegata, instabile.

Anche il dolore è parte della nostra esistenza. Affiora all’improvviso, si manifesta benché non invocato, fa capolino nelle nostre vite, ospite inatteso ma pur sempre ospite nella casa provvisoria e sghemba in cui abitiamo da affittuari passeggeri.
In quei giorni in cui anche il respiro ci sembra sanguinare da quanto stiamo male, il dolore si fa compagno di strada e non lascia scampo né alla contentezza né alla serenità, abbattendo per entrambe i primi vagiti.

Esiste un dolore fisico, fatto di traumi, ferite e lacerazioni del corpo.
Esiste un dolore più intimo, fatto anch’esso di traumi, ferite e lacerazioni dell’anima. Chi prova questo secondo invoca il primo come lenimento per stare meglio: è il paradosso della vita, dove la sofferenza del corpo pare essere la sola a sedare il male più profondo dello spirito.

Dolorante, come il legno colpito dall’ascia

Il dolore ha un antenato nel sostantivo latino dolor, a sua volta derivato del verbo dolēre, che significa ‘sentire o causare dolore’. Alcuni studiosi di etimologia connettono questo verbo a un altro verbo latino, dolāre, che significava ‘lavorare con l’ascia’. ‘scolpire il legno’, ‘spianare’, ‘bastonare’, ‘abbozzare’. A sua volta, la radice indoeuropea del- ha il significato tecnico di ‘usare uno strumento da taglio’.

Ecco, quando proviamo dolore ci sentiamo proprio così, come quel pezzo di legno colpito dall’ascia, con la lama della sofferenza che incide la carne, un legno inerte di fronte ai colpi ben assestati del destino.

Ciascuno reagisce a proprio modo al dolore e agli sfridi che questo genera. E ciascuno ha una diversa soglia di sopportazione: chi si sente morire al primo acciacco e chi reagisce con forza leonina alle più grandi sofferenze.

Una cosa è certa: San Tommaso diceva che il dolore se condiviso si dimezza, mentre la gioia condivisa si raddoppia. È l’algebra di base della natura umana: le relazioni tra le persone non solo accrescono la felicità ma aiutano anche a ridurre la quantità di male provato sulla loro corteccia. Il legno colpito dall’ascia viene sbozzato di meno quando a un ceppo si accosta un altro ceppo, quando la catasta è più grande, quando i tronchi da scolpire sono tanti e restano uniti tra loro.

La fitta, il chiodo che si pianta

Il dolore può essere una fitta e quindi un male di breve durata ma intenso e pungente.
Possiamo provare una fitta alla testa, se il male è circoscritto al capo, ma possiamo provare una fitta al cuore e in quel caso il muscolo cardiaco non sempre è coinvolto nel tema: l’interpretazione può divenire figurata. Quella fitta si può ammantare infatti di afflizione o di tormento interiore per un lutto o un amore non corrisposto o una separazione subita.
Del resto, diceva Carl Gustav Jung, il padre della psicologia analitica: “I drammi più commoventi e strani non si svolgono nei teatri ma nel cuore degli esseri umani”. E le fitte sono la conseguenza percepita con sofferenza di qualcosa che ha trafitto, di qualcosa che è stato conficcato nella carne o nella carne dell’anima.

Fitta deriva dal verbo latino figere, che significava ‘piantare’, ‘conficcare’, ‘inchiodare’. Ecco, quindi, le fitte sono chiodi piantati dentro di noi: ogni colpo di martello, il dolore lancinante aumenta, accompagnato da intollerabili trafitture.
Se il dolore è aduso all’ascia, la fitta si genera dunque con il martello. Con il dolore si sbozza la superficie della materia che riceve una forma, con la fitta in quella stessa materia si penetra in profondità.

La sofferenza ci assale dal basso

Sinonimo di dolore è anche la sofferenza, che si differenzia dalla fitta. Se la fitta è passeggera e di breve durata, la sofferenza è “la condizione tormentosa provocata dall’assiduità del dolore” (Devoto-Oli). Il dolore, se sofferto, diventa assiduo, ripetuto, reiterato, circolare.
Soffrire significa ‘patire’, ‘subire dolori fisici e morali’ ma etimologicamente rappresenta in primo luogo la fatica della sopportazione, l’affanno provato nel sostenere i pesi della vita. L’origine della sofferenza è comune a tante parole della lingua italiana: antenato del soffrire era il verbo latino sufferre, ‘sostenere’, ‘sopportare’, da ferre, ‘portare’, con il prefisso sub, ‘da sotto’. La sofferenza diviene quindi sopportazione del disagio: a ciascuno di noi, nella sofferenza, il compito di interrogarci su cosa quella sofferenza aiuti a sostenere.

Il movimento è dal basso all’alto, come se nel soffrire potessimo rivolgere gli occhi al cielo per trovare conforto. Del resto, cercando tra le parole parenti del soffrire, abbiamo modo di riferire il patimento, di trasferire ad altre persone il malessere, di conferire nobiltà e valore all’affanno, di inferire un significato alla disperazione.

La disperazione è degli dei

Già la disperazione è una forma di dolore che non prevede speranza, lo stato d’animo di chi è oppresso da uno sconforto inconsolabile. La disperazione è il dolore senza fiducia e senza prospettive di miraggio. Spes ultima dea è un detto latino, ‘la speranza è l’ultima dea’. Ma nella disperazione quella dea ha rivolto il suo sguardo altrove, si è distratta, ha deciso di non curarsi più delle vicende umane: pare che quella dea sia ritornata sull’Olimpo e non ci sia modo di farla rientrare sulla terra, aiola feroce. Spes sibi quisque aveva esortato Publio Virgilio Marone, il poeta autore dell’Eneide: “Ciascuno sia speranza a sé stesso”. Ma chi è disperato non riesce a trovare la pozione magica per esserlo, non riesce a formulare l’incantesimo di successo, non ha modo di forgiare le parole opportune per richiamare la dea. Forse per tutto questo c’è una ragione: perché la disperazione è uno stato d’animo indicibile, inudibile e perciò inaudito per gli esseri umani. Lo spiega bene, con una frase ad effetto, lo scrittore Gesualdo Bufalino: “Solo l’infelicità è degli uomini, la disperazione è di Dio”. Ebbene, in quel dolore che prende la forma della disperazione si trova lo stigma della divinità. Forse per questo, quando gli umani sono disperati gli dei voltano loro le spalle.

Mi torco, in quel tormento

Una forma contorta del dolore è quella che assume i segni del tormento. In origine il tormento, tormentum in latino, era letteralmente uno strumento di tortura e di martirio. Vittime di quel tormento immaginiamo essere giovani donne accusate di stregoneria o giovani uomini arrestati e seviziati per estorcere una confessione. Da strumento di tortura, il tormento è diventato la tortura stessa, anche in senso figurato, intimo, profondo, quello che assale quando lo stato d’animo diventa in preda alla tormenta, cioè alla ‘tempesta di mare’.

Antenato del sostantivo tormento era un verbo pronunciato nell’antica Roma, torquēre, ‘torcere’, ‘avvolgere qualcosa su se stesso’, ‘avviluppare’. Quel verbo ha molto figliato, in tutte le lingue derivate dal latino. In italiano ritroviamo tracce di torquēre in molte parole oggi comuni: nel tormento, appunto, ma anche nel torchio così come nella torcia (la fiaccola realizzata con una corda ritorta e ricoperta di resina o cera) e nella tortura. La persona tormentata dal dolore è uno straccio bagnato di umanità strizzato da mani che non conoscono la pietà.

Lacerato, come uno straccio

Anche lo strazio, come il tormento, è sinonimo di dolore e per certi versi condivide con il tormento il movimento, la torsione, la sensazione di contorcimento insita nello stato d’animo. Tormento è parente di torcere e di tortura, strazio è affine a stracciare e quindi al gesto di ‘ridurre in brandelli’, ‘lacerare’, ‘strappare’. Sopraffatti dal dolore, ci sentiamo come uno straccio ridotto a lacerto, come un cencio sdrucito dal tempo. Sia stracciare (da cui straccio) che straziare hanno un antenato in comune, il verbo del latino volgare distractiare, forma intensiva del verbo distrahĕre, cioè ‘lacerare’, ‘fare a pezzi’. Quando siamo doloranti e straziati, andiamo in frantumi, i cocci del nostro io profondo si spaccano a terra, i brandelli di trama e ordito delle nostre esistenze si sfilacciano, non riconosciamo più l’unità del disegno tracciato per noi. Poco importa se da quel distrahĕre è derivato in italiano anche il verbo distrarre: dallo strazio fatichiamo a distrarci, il pensiero rimane strappato, la ferita dell’animo sanguina di mille ahimé.

Aggrottare la fronte

Se il dolore non è così forte da diventare strazio ma si limita a farci aggrottare la fronte allora lo chiamiamo cruccio. Il cruccio è una forma di malessere più lieve, appunto una leggera increspatura dell’animo, un dolore che rimane in superficie, un disagio che corrompe il piano dell’esistenza. Il sostantivo cruccio e il verbo corrompere condividono in effetti un antico lignaggio. Entrambi vantano un antenato nel participio passato latino corruptus, da corrŭmpĕre che significava ‘guastare’, ‘danneggiare’. Da questo verbo della lingua di Cicerone è derivato l’italiano corrompere, che ovviamente contiene in sé il verbo rompere.

Ecco, quando siamo crucciati, è come se il nostro animo si ritrovasse guastato, un po’ ammaccato, deteriorato in qualche aspetto, rovinato nella forma e nella sostanza, corrotto rispetto alla primigenia pienezza. Quando siamo crucciati è come se avessimo perso la rotta, che non è altro che il cammino, la strada, il percorso, parente del francese route e dello spagnolo ruta, in origine il ‘cammino aperto tagliando il bosco’, la strada creata tagliando selci e rovi, il percorso generato facendosi spazio tra le piante. Quando siamo crucciati fatichiamo a trovare il nostro sentiero perché a essere danneggiato non è il bosco ma siamo noi stessi.

Le parole per lenire il dolore

In quei momenti di scoramento a darci conforto intervengono spesso solo i giochi di parole: proprio le parole che si inanellano tra loro infilzate l’una dopo l’altra con il filo luminescente della storia della lingua, che danzano allegre davanti ai nostri occhi, che si danno la mano senza afflizioni compiendo girotondi di sorrisi e di sospiri. Proprio le parole ci aiutano ad allontanare dalle nostre menti e dai nostri cuori dolori, fitte, sofferenze, disperazioni, tormenti, strazi e crucci. Le parole si prendono cura di noi, diventano medicamento, irrobustiscono le nostre persone in modo tale che l’ascia del dolore le scalfisca appena e le ferite possano presto rimarginarsi.

Ce lo ricorda Lucio Anneo Seneca, il filosofo stoico che sul tema dell’amarezza e della sua consolazione ha dedicato molti dei suoi scritti: “Lieve è il dolore che parla, il grande dolore è muto”, Levis est dolor qui loquitur, magnus muta. Ecco queste parole siano per te che le leggi un farmaco gentile che ti offre sollievo.