Scrivo mentre ascolto ad occhi chiusi la voce di Carolina, una voce che è musica piena di saggezza, che risuona forte nel corso dell’intervista.

Quando scrivo, mi piace ascoltare la voce della persona a cui le mie parole sono dirette. Immagino che questa voce entra dentro di me, sento che ci plasmiamo, ci uniamo, siamo un unico corpo. O due corpi in uno. È potente questa connessione che si crea tra due corpi che non si conoscono eppure vivono uno dentro l’altro, sconosciuti, ma presenti.

Ci provo allora a ricevere la potenza delle parole di Carolina Sanín, un linguaggio che è singolare, denso, seducente, un linguaggio personale, dinamico e soprattutto corporale.

Uno escribe para saber dónde está.
Porque se da cuenta de que nunca sabe dónde está.

Una persona scrive per sapere dove si trova.
Perché si rende conto che non sa mai dove si trova.

Ponerse en el texto es ubicarse.

Collocarsi nel testo significa trovarsi.

Ponerse en el texto es desubicarse.

Collocarsi nel testo significa perdersi.

Uno escribe para hacer un lugar.

Una persona scrive per creare uno spazio.

Uno escribe: abre un espacio donde podría estar. O un espacio que podría ser lo que se prometió que uno sería.

Una persona scrive: apre uno spazio dove potrebbe essere. O uno spazio che potrebbe essere ciò che ci si è promessi di essere.

Uno escribe para estar en varios lugares a la vez.

Una persona scrive per essere contemporaneamente in vari luoghi.

(Carolina Sanín, Somos luces abismales, Blatt & Ríos, 2018, trad. Laura Boscardin)

Inizio con queste frasi una riflessione che mi serve come punto di partenza per poter addentrarmi nella letteratura di questa scrittrice colombiana, professoressa e autrice di vari libri tra cui i romanzi, Todo en otra parte, Los niños – la cui edizione italiana sarà pubblicata prossimamente da Editore XY – il libro di racconti Ponqué y otros cuentos, alcuni libri per bambini, i libri Somos luces abismales e il più recente Tu cruz en el cielo desierto.

Si intuisce qualcosa di corporale nella scrittura di Carolina. È un respiro umano, un respiro del mare. Come un’onda, comincia innalzandosi, piena di potenza e domande, arriva nel punto più alto, la cresta del testo, e scende impastandosi di nuovo con l’acqua, con il testo, spargendo mille gocce, mille parole. Poi ricomincia un'altra volta, lo stesso movimento, all’infinito.

Non è mai quieta questa scrittura, come non lo è il mare, non lo è il corpo. Il mare, cercando sempre uno scoglio contro cui abbattersi, una spiaggia dove riposare un instante tranquillo; il corpo in cerca di un centro, di un luogo, di un testo.

Ed è una scrittura che come un corpo, con i suoi muscoli, si stira, è flessibile, la sua elasticità la porta a cercare una connessione tra un dove che è qui, il dentro e un dove che non è qui, il fuori, el allá, dove si dirigono le parole.

Carolina, in un’intervista per La red cultural del Banco de la República en Colombia, racconta che concepisce il testo come uno spazio fisico che deve essere riempito, la letteratura come una dimensione corporale, come un corpo dinamico e sempre in movimento. Un movimento della scrittura, della lingua che serve per proporre riflessioni e pensieri profondi, domande – molte domande – per parlare di sentimenti e sensazioni: come descrivere per esempio l’amore, la tenerezza? Perché alla fine definire non è comprendere. Carolina va contro i detti, le frasi fatte e costruite e date per certe. Cerca di descrivere quindi vari concetti e li porta all’estremo, estirpando ogni loro significato in una lotta continua per comprendere, che porta ad altre parole e si creano così poesie infinite…

Perché tutto questo, poi, non è altro che immaginazione. Il potere dell’immaginazione. Che è creazione, desiderio, il centro della scrittura, della poesia.

Carolina trasporta nei suoi scritti queste infinite domande, i problemi, immagini, idee che la preoccupano, esperienze vissute e che diventano parte di uno studio, di un esame profondo. Per esempio, in Los niños, la riflessione principale – ma non l’unica – sulla maternità, sulla relazione di maternità tra madri e figli, ma anche sul tema dell’amicizia e su altre tipologie di relazioni.

In Somos luces abismales, c’è un’investigazione intesa come immaginazione verso le cose che si vedono e un esame della parola, un’esplorazione dei suoi aspetti infiniti. E uno dei suoi ultimi scritti, Tu cruz en el cielo disierto, definito da Carolina come una confessione erotica, un saggio sull’amore confuso, il desiderio, la letteratura, ma anche una meditazione sul testo stesso e sulle parole che vivono e muoiono nel tempo, nell’instante in cui escono dalla bocca sotto forma di suono o si scrivono in un testo: il testo come rito funebre della parola.

Carolina scrive per mostrarsi, affinché possa essere vista, per occupare un luogo o un non luogo: un vuoto, un silenzio nell’universo che è precisamente il principio della scrittura come dice Roland Barthes.

Su questo, penso a una poesia di Alejandra Pizarnik:

Scrivi poesie perché hai bisogno di un posto dove essere quello che non sei.

(Alejandra Pizarnik, Poesía completa, Poemas no recogidos en libros, Lumen)

O ad una frase del libro, The crying book, della poeta americana Heather Christle:

We all flicker. For a moment, we have moved inside the poem.

E si entra così nella scrittura di Carolina, occupando il suo spazio per un tempo che è un instante, un istante pieno di sfaccettature che è in continuo movimento, per evolversi e cercar(si).