Con Joe Biden e Kamala Harris sembra ritornare l’America che abbiamo amato. Che abbiamo amato noi, ultrasettantenni napoletani, da quando eravamo bambini. Era il 1956. Renato Carosone lanciava la canzone Tu vuò fa’ l’americano: una divertitissima parodia del giovane che ispira molto ingenuamente i suoi comportamenti allo stile di vita americano.

Il napoletano che vuole fare l’americano indossa un pantalone con uno stemma dietro, una piccola coppola con la visiera alzata e se ne va girando, “scampaniando”, per via Toledo come un guappo per farsi ammirare. Fuma le Camel comprate con i soldi spillati a mammà, gioca a baseball, balla il rock and roll, ma se beve whisky and soda, poi si sente “disturbà”.

La tentazione di scimmiottare lo stile di vita americano era fortissima e diffusa. Molti anni dopo Renzo Arbore ha riconosciuto che, appena arrivato a Napoli proprio allora da Foggia, se ne andava in giro con gli amici per le strade della città con abbigliamenti e atteggiamenti non dissimili da quelli del protagonista della canzone di Carosone.

La Napoli di quegli anni era ancora piena di americani. Non solo marinai e soldati, ma anche ufficiali e impiegati occupati nella sede della Nato che circolavano con le loro gigantesche auto per le nostre strade non sempre adeguate alle loro dimensioni.

Ragazzini appassionati di motori ci spostavamo dal nostro spartano cortile condominiale in quello dell’adiacente parco residenziale, molto più signorile e panoramico, dove abitavano molte famiglie americane, per contemplare da vicino le mastodontiche Buick, le lunghissime Cadillac, le monumentali Dodge e schiacciavamo il naso sui cristalli dei finestrini per goderci quegli interni da sogno. Che cromature scintillanti! Che abbinamento di colori vivaci e sgargianti! Erano le macchine degli attori, dei divi, dei ricchi.

Alla guida di una vistosissima Thundebird rosa moriva all’alba del 3 febbraio del 1960, scontrandosi con un camion, l’ancora giovanissimo Fred Buscaglione, che in maniera ironica e trasgressiva interpretava, spesso vestito come un gangster di Chicago dei film polizieschi, un modello artistico e di vita americaneggiante.

I nostri genitori ci raccontavano dell’arrivo degli americani liberatori e dell’accoglienza festosa di chi per scordare l’occupazione tedesca dimenticava quello che le bombe americane avevano fatto nella nostra città. Erano stati accolti a braccia aperte, a volte fin troppo, tanto da lasciare in ricordo del loro passaggio qualche figlio, come racconta una giocosa canzone napoletana del ’44, che ironicamente celebra il piccolissimo Ciro, che nonostante il nome ultra-napoletano che la ragazza madre gli ha dato, è “nato nero”.

Gli americani ci avevano portato il boogie woogie, l’insetticida Flit, le sigarette, il chewing-gum, una miriade di alimenti in scatolette e nuove canzoni. Per noi erano tutti ricchi, buoni e generosi, ma anche un po’ propensi, proprio come nei loro film, al whisky. In una spiritosissima canzone Buscaglione, ostentando il suo look filo americano, riconosceva una sua debolezza: “Sono Fred dal whisky facile, son criticabile, ma sono fatto così” e confessava: “se c’è una cosa che mi fa tanto male, è l’acqua minerale”.

Qualche volta di sera nelle strade di Napoli, tenuti per mano dai grandi, abbiamo visto marinai vestiti di bianco, scesi dalle navi militari alla fonda nel porto, aggirarsi alla ricerca di svago, molto spesso alcoolico, e qualche volta siamo rimasti stupefatti nell’assistere agli sbrigativi blitz della Shore Patrol per recuperare a suon di manganellate quelli che si erano ubriacati.

Diventati adolescenti ci appassionammo, grazie alla nostra tanto vituperata e amata televisione in bianco e nero, alle opere di straordinari maestri del cinema americano come Frank Capra, Howard Hawks, Billy Wilder. Ne era passato di tempo da che, ragazzini, divoravamo famelicamente i fumetti di Capitan Miki, Grande Blek e Tex eroi americanissimi nati in Italia, e, non disdegnando il gioco con pistole e fucili, facevamo il tifo per i soldati yankee dei film di guerra.

Poi, travolti improvvisamente dal fascino della musica classica, scoprivamo grazie alle edizioni discografiche economicissime degli anni Sessanta le leggendarie orchestre sinfoniche che davano lustro e fama a città come Boston, Chicago, Cleveland, Filadelfia, rese celeberrime da straordinari direttori come Arturo Toscanini, Fritz Reiner, Leopold Stokowski, Bruno Walter.

E arrivò anche a Napoli il sessantotto, con il suo empito rivoluzionario, con le sue aspettative, con i suoi sogni, con le sue sofferte scelte, con le sue manifestazioni in strada. L’America cominciò ad essere rappresentata, di nuovo, soprattutto dalla sua forza militare di grande macchina bellica. Per tanti anni ha fatto parte integrante del panorama del golfo di Napoli, il profilo di una grande portaerei statunitense.

Ma dagli States non arrivavano solo echi di guerra, di segregazioni razziali, di Ku Klux Klan e di paure per la corsa agli armamenti atomici. Giungevano anche la Pop Art, la cultura undeground, le inquietudini della beat generation, il rhythm and blues, la musica soul.

Fummo letteralmente travolti da Kerouac e da Bukowski, restammo stregati dal Giovane Holden di Salinger e leggemmo con sgomento la autobiografia Malcom X. Fummo conquistati dalla musica del dolore nero, accogliemmo come veri e propri miti Ray Charles, Aretha Franklin e Otis Redding e vivemmo con ansia l’aspettativa di un riscatto umano e sociale.

Nel ’69 arrivò da noi la strepitosa canzone dei Blue Mink Melting Pot. Inneggiava all’uguaglianza razziale, proponendo una ricetta per una minestra umana mondiale e multietnica. Nonostante il tema fosse impegnativo la canzone aveva un andamento brillante e vivace. Ecco l’esordio della ricetta: “Prendi un pizzico di uomo bianco/avvolgilo in pelle nera/aggiungi un pochino di sangue blu e un pizzico di ragazzo pellerossa./ Se raggruppi tutto avrai una bella ricetta”. Due anni dopo i Blue Mink diventarono famosissimi arrivando al top di tutte le hit parade con l’allegrissima e trascinante *The banner man”.

Poi nel 1985 la grande suggestione e la grande emozione dell’iniziativa “USA for Africa”. In uno studio di registrazione quarantacinque cantanti famosissimi si riuniscono per cantare We are the World. Ci sono tutti i nostri beniamini: tra gli altri, Tina Turner, Steve Wonder, Bob Dylan, Michael Jackson, Paul Simon, Dionne Warwick. Un messaggio multietnico in musica molto forte, che abbiamo riascoltato tantissime volte pescandolo in rete, diventati prima adulti poi anziani, sempre con tanta emozione.

We are the world, Noi siamo il mondo, è rimasta legata al sogno dell’America che ci ha sempre accompagnato; dell’America libera, “on the road”, di chi la percorre in torpedone o in motocicletta da costa a costa; dell’America di Martin Luther King e del suo “dream”; dell’America che si batte contro suprematismo e razzismo, per abolire ogni forma di segregazione e di apartheid; dell’America di Barack Obama, che in un filmato che circola, seguitissimo, in rete abbiamo visto commuoversi ascoltando Aretha Franklin che canta Natural Woman; dell’America di Joe Biden e Kamala Harris, che – lo speriamo davvero- stanno riaccendendo il sogno.