Interessante notare come Dante, nel suo capolavoro, abbia dato voce alle donne. Idealizzate nel dolce stilnovo, il fiorentino comunque ne sottolineava l’animo e la capacità di parola in ben sette casi, pur costretto a vederne alcune agli inferi.

Il movimento letterario sviluppatosi a Firenze e al quale Dante apparteneva assieme a Guido Cavalcanti e a Guido Guinizzelli, ad esempio, esponenti della ricca borghesia colta che predicava come la vera nobiltà non venisse dal lignaggio ma dall’ingegno, era caratterizzato da uno stile limpido e musicale, basato sulla scelta di parole piane, bisillabi specialmente.

Il contenuto era originale, da cui il ‘novo’, soprattutto per l’aspetto che celebrava l’amore in modo completamente differente da quanto fosse mai stato scritto. Al centro del mondo poetico c’era la donna amata, essere perfetto non solo per la bellezza sopraffina, ma per la gentilezza d’animo, l’umiltà, l’angelicità. L’amore così veniva trasformato in una forza spirituale che ritroviamo nella Commedia, opera lunga, poema come di antica origine, tuttavia con un disegno grandioso e senza precedenti. L’ordine del mondo e dell’universo ne sono riprodotti e ne confluiscono anche la filosofia medievale e la tensione del dramma spirituale dell’uomo alla ricerca di Dio.

Nel cerchio dei lussuriosi Dante incontra una delle donne più famose del poema, Francesca, ma anche Didone, la fondatrice e regina di Cartagine, che aveva tradito la memoria del defunto marito Sicheo innamorandosi di Enea, per poi suicidarsi una volta che lui la abbandonò.

Poi Cleopatra, l’ultima regina d’Egitto, che dopo la morte di Giulio Cesare si unì a Marcantonio per poi morire suicida anch’ella.

Le grida e i lamenti del secondo cerchio dell’Inferno sono alti: le anime sono trasportate da un vento furioso che le sbatacchia in ogni dove, tanto quanto il turbine della passione le ha travolte in vita. Due di queste sono abbracciate e in un momento di quiete della bufera, sarà possibile per una di loro parlargli. È Francesca che narra del suo amore per il cognato Paolo, con i versi forse più celebri:

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende…
Amor, ch’a nullo amato amar perdona…
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse.

La storia di Francesca da Rimini è reale. Data in sposa giovanissima a Gian Ciotto Malatesta, signore di Rimini, pare si fosse innamorata del fratello di lui Paolo e il marito, per vendicarsi, li uccise entrambi. Una vicenda che fece molto scalpore al tempo perché se l’adulterio non veniva perdonato, nemmeno l’efferato delitto trovò giustificazione. Per Dante la colpa dei due, che lo commosse nel suo viaggio fino alla perdita dei sensi, era dovuta all’amore, il più alto dei sentimenti, e quindi prova pietà per i giovani, tanto quanto lo stesso vortice si placa di tanto in tanto, ad indicare quanto fosse forte il loro legame amoroso, pur illecito.

A Francesca farà da contraltare proprio la donna angelo, Beatrice, una volta che l’autore raggiungerà il Paradiso. L’aveva incontrata quand’era giovanissimo e l’aveva rivista soltanto nove anni dopo, quando era già sposata e lui era promesso a Gemma Donati. Il suo amore divenne spirituale, purissimo, e gli arricchì tutta la vita, malgrado quando Beatrice morì, nel 1290, lo avesse lasciato nello sconforto più totale al quale solo la poesia poteva rispondere, con una celebrazione degna di ciò ch’ella aveva rappresentato.

Beatrice gli rivolge la parola quando lo incontra e gli spiega come il suo intervento si fosse reso necessario per fargli compiere quel viaggio e ricondurlo sulla retta via. Lo rimprovera per aver pensato di essere degno di salire in Paradiso, ma lo accompagna per un tratto, fino a quando lo affiderà a san Bernardo di Chiaravalle per poter riprendere il suo posto presso Dio.

La virtù di Beatrice e la sua bontà gli avevano permesso di ritrovare il corretto cammino, anche meditando sul suo esilio, come ebbe occasione di fare con l’antenato Cacciaguida. La sua amata rivolse a Dante un ultimo sorriso, simbolo della soluzione dei crucci al termine di un comportamento onesto e santo.