Dai primi versi di Nemis, Paola Cavanna ci catapulta nella poetica del suo lavoro, ci assorbe nel suo mondo; fin dal prologo, dal ribollire fetido del suo "pentolone" percepiamo che cosa ci aspetta. Intanto il suono del dialetto rende le sue parole più intime, originarie, sensuali, la sensorialità con la sua prorompenza è in primo piano, ne siamo magicamente catturati, non c'è via di scampo.

Siamo dunque immediatamente e impietosamente immersi nell'odore nauseabondo di carne umana lessa, Paola Cavanna ci mette da subito in stretto contatto col putridume della vita.

L'incipit col calderone in cui sobbolle un insieme di pezzi di animali di ogni sorta e che tanfa della "tua carne a less!" ci fa slittare in un'atmosfera cupa e fuligginosa, spaventa un po', lascia perplessi, quasi inorriditi, il pentolone predice quello che bolle in pentola nel libro, le strofe richiamano sempre di più gli artifici e le parole "stroligate" delle tre streghe del Macbeth che sibilano profezie inaudite "Il bello è brutto, il brutto è bello..." Dal pentolone del suo libro parte, dunque, la maledizione contro i nemici. Ne usciranno parole terribili, immagini angoscianti e, a volte, rivoltanti, ma le sue invettive macabre sono densissime di sapienza, dolore, esperienza e ... diventano poesia.

Si percepisce una intensità di emozioni, si intuisce una sensibilità acuta e ferita, un apprendimento della vita conquistato mettendosi in gioco in prima persona, con la consapevolezza della rischiosità, ma anche con il coraggio e la forza leonesca di andare sempre avanti con fierezza battagliera. Una amazzone impavida.

La scelta dei vocaboli, che risuona di questa esperienza, è estremamente accurata, colta, impastata di una cultura popolare e di una cultura classica, ma non solo, sono parole tridimensionali in cui il corpo è incarnato, rendono in maniera mirabile le emozioni che ne sono sottese, irrorate dalla consapevolezza di una vita pienamente vissuta.

Nel tessere le sue poesie è come se avesse ordito una doppia trama, sia in dialetto che in italiano, dove, per ognuna delle due, crea assonanze, rime, giochi di parole, dove si manifesta la sua anima poetica bilingue, anima così trasbordante che è come se necessitasse di una duplice stesura. C'è un interloquire poetico tra i due assetti mentali, forse si possono ascrivere ai due linguaggi: quello del corpo e quello della mente.

Il dialetto risuona in maniera speciale, sa di storia, di vita vissuta, di esperienza, di sensorialità, è la lingua madre, lingua degli affetti, lingua dei suoni, dei colori, degli odori. Lingua che commuove perché parla le emozioni primarie, lingua che accarezza, che solletica, che fa nostalgia...ma anche lingua che taglia senza pietà. L'italiano, invece, è la lingua della cultura, si sente che è pensata, ricamata, sofisticata, con una ricerca minuziosa di suoni e significati che conferiscono ai versi una nobiltà semantica.

Sono poesie di amarezza e di denuncia, ma sono anche prepotentemente un inno di amore al dialetto milanese che sa così vivacemente rinverdire. Ci offre in maniera straordinaria la sua milanesità sempre fresca e spumeggiante.

Col suo sguardo enigmatico, Paola Cavanna, col suo sorriso amaro e ironico, dolce e sferzante, allo stesso tempo, inizia a dare scudisciate implacabili ai "nemici".

Le sue sono parole forti, a tratti anche dure, quasi crudeli e sprezzanti nei confronti di chi offende, chi fa male, trova parole corrosive per chi ha corroso l'anima, parole putride verso chi ha insozzato, sporcato le speranze, i sogni, parole truci per chi ha osato interrompere la capacità di sognare, di sperare, di amare.

Il linguaggio/sapere popolare, colorito che entra acutamente nelle pieghe della cultura e tradizione meneghina e il linguaggio/sapere colto raffinato che attinge ad una conoscenza linguistica raffinata e approfondita sono coniugati armonicamente intrecciando una danza di suoni che parlano la vita.

Capita di trasalire per i salti inaspettati tra l'orrido e il sublime, per i cambi di registro improvvisi tra le immagini forti, catastrofiche, quasi irriverenti e le emozioni acute che traspaiono, che sono di una profondità rara e che raccontano di una sensibilità trafitta, di una fiducia tradita, di una immagine sporcata.

Lo sporco, la merda, l'urina, tutti i rifiuti organici che sanno di corpo maltrattato, di corpo violato, di corpo offeso e abbandonato, sono immagini puzzolenti e devastanti che fanno sentire l'odore del dolore, della paura, della solitudine.

Ma il "corpo in poesia" della Cavanna è un corpo-mente che trasuda di quell'impasto misterioso di cui siamo fatti, è un corpo che sente, che pensa, che reclama, che dice orgogliosamente le sue ragioni, è un corpo relazionale che lega e slega i contatti.

Le sue rime infuocate denunciano la dissacrazione della relazione, degli affetti, dell'ideale infranto, incidono col bulino del dolore la devastazione dell'anima che può solo trasformarsi in odio e vendetta.

Sono strofe bellissime e terribili, ma come dice Rilke "ogni angelo è tremendo..."

La sensorialità è molto in evidenza, la sensorialità degli esseri viventi, ma anche delle cose, delle situazioni, delle atmosfere, addirittura si sente vibrare la sensorialità delle parole. Parole-carne, parole- ferita, parole-dolore, parole-denuncia, parole-disprezzo, parole-verità.

Sono parole che toccano, che fanno rabbrividire, che fanno spaventare, a volte fanno schifo, a volte riescono anche a pungere come le ortiche, o fanno contorcere le budella; sono parole che sorprendono, che fanno piangere o sorridere, si insinuano nelle viscere della mente creando turbolenze emotive, lasciano il segno, lividi nell'anima, certamente non lasciano inermi e indifferenti.

La Cavanna dà voce a tante donne che non sono riuscite ad urlare la loro sofferenza, a "sacramentare" per la loro dignità offesa e a vomitare la loro rabbia che invece hanno dovuto tener dentro come un veleno che ammalava la loro esistenza e che uccideva la loro mente.

Quando Paola, rivedendo le sue poesie-a-spillo, teme di essere stata un po' troppo spietata coi Nemis, si rincuora leggendo di come le donne sono state maltrattate dalle parole scritte anche da uomini illustri e cita in esergo frasi vergognose di Sant'Agostino, Carlo Goldoni e Adolf Hitler, giusto per riconfermarsi che i "nemis" vanno puniti, vanno smascherati, umiliati, uccisi senza pietà.

Ògni dòna incazzada l'è on poo strìa. (Ogni donna arrabbiata è un poco strega).

E non si salvano neanche i "tovaja" (finti tonti), che credono di saperla lunga, ma che "per savè che quel che t'hee mangiaa/l'era merda, saria staa assee l'odor..." ("per sapere che quello che hai mangiato era merda, sarebbe bastato l'odore...")

Parole caustiche anche contro i cosiddetti amici che ti regalano fregature, "Guai a fidass de chi tròpp te sorrid:/ ma 'l staa a coo bass e spuzza de carògna!" ("Guai a fidarsi di chi troppo ti sorride, ma sta con la testa bassa e puzza di carogna...")

I boriosi, i noiosi, i giudici, gli imbronciati sono calamità umane che flagella senza pietà, e mette nel mucchio degli "indegni" anche insospettabili fior di persone e personaggi che scopre di bassezze insopportabili, insospettabili. E allora ecco sul banco degli imputati Dorian Gray, don Giovanni, San Gerolamo, don Pietro Corsi, Charlie Chaplin, Alberto da Giussano, uomini famosi visitati, radiografati, pizzicati a puntino nelle loro brutture e fragilità, sono smascherati ed esposti con forza allo sguardo della verità e, denudati delle vesti dell'imperatore, eccoli lì, meschini... vermi inguardabili, suscitano ribrezzo, fanno accapponare la pelle.

Dolorosamente forti e tremendamente evocative sono le terribili immagini dipinte in Crudele: "Te m'hee sbrindellaa l'anima coi dent" (mi hai sbrindellato l'anima coi denti...) o quelle che risuonano sorde nel Pugile, dove "Partiss el pugn/'me on mah sora la faccia...On alter dent la panscia" (“Dove i pugni partono sulla faccia e nella pancia...”).

Paola urla a squarciagola tutta la sua denuncia contro la violenza sulle donne, urlo che è dolore, che è indignazione, che è accusa, che è disperazione all'unisono con le donne violate. È come se sentisse dentro di sé e si assumesse tutto il dolore subito e non detto delle donne maltrattate.

È l'urlo di un animale ferito quello che fuoriesce dalla sua penna.

Tanto che inventa anche una metafora pseudo-evangelica dove, con una arguta inversione dei ruoli, Cristo vende Giuda per danaro, questo è il suo artificio per dar voce alla rabbia di una donna contro le ingiustizie e le ottusità della società maschilista.

È anche pronta ad andare contro gli Erode che fanno scempio di innocenti, non ha paura, anche in questo caso, di affrontare e graffiare personaggi famosi, usualmente considerati di grande intelligenza e valore, ma Paola li svela inesorabilmente colpevoli di aver fatto del male alle donne, di non essere capaci di rispetto, per cui sputa su di loro nonostante i loro cervelli egregi che, però, come ogni comune cervello pesa "On chilo e ròtti... e no governa i vizzi nè l'usell".

Compaiono personaggi meneghinamente connotati, il "tremacoa" (pauroso) o lo "stemegna" (avaro), nomi dialettali che, ahimè, non si sentono più e che possono trovare solo una fredda traduzione... vocaboli che racchiudono la storia di un'epoca, uno stile di vita relazionale che ora non c'è più.

E la Cavanna arriverà sarcasticamente anche agli uccelli del paradiso, ma è il paradiso delle oche per quei poetucoli che hanno offeso l'arte con le loro insulsaggini, mentre lei, corvo, scura, spaventata da niente, immersa nell'eterna pena del vivere che è anche diventata la sua penna, la sua ricchezza, può finalmente essere lei a ferire, per cui immagina che per sé ci sarà solo l'inferno nell'altra vita "gh'è minga on Paradis, domà l'Inferna!"

Ma dopo tanto inferno, ecco il Paradiso, un tripudio di tepore e di dolcezza, l'amore incondizionato per l'unico suo "minga nemis" (non nemico). Siamo improvvisamente travolti da una corrente numinosa, fatta di affetto profondo, siamo investiti da uno sciame di luce, una cascata di bellezza così toccante da commuovere, è talmente forte l'impatto emotivo che è addirittura troppo difficile da sostenere, richiede di essere alleggerito da qualche lacrima, ma qui le lacrime sono così differenti da quelle di disgusto, dolore e rabbia suscitate dai Nemis, qui è la felicità che tracima lacrime, sono perle di una gioia straripante.

Sono di una tenerezza infinita i versi che inondano di amore l'altra faccia della strìa, appare qui la fata amorevole, protettiva, carezzevole, è storia di amore che commuove e che è come un abbraccio caldo e avvolgente, è un'onda che ci prende e ci avvolge della potenza di un amore smisurato. Sono parole liquide che sgorgano affetto, dolci e profumate come il latte di mamma.

Contra i me sòcch/te scondevet el faccin/per el stremizzi [ma ora] "te robi on quai basitt/ ona basciada/e me foo el nid/su la tua spala fòrta/tant per sentimm segura.../Perchè son mi che adess/gh'hoo 'doss paura... (Contro le mie gonne/nascondevi il faccino/per lo spavento/a volte per la paura [ma ora] ti rubo qualche bacio/un abbraccio/e mi faccio il nido/sulla tua spalla forte/tanto per sentirmi più sicura…/Perchè sono io che adesso/ho paura...")