Senza poter ovviamente riprendere la complessità dei problemi legati alla presenza del crocifisso a scuola in Italia (per tacere, poi, degli altri spazi pubblici), sui quali molto è stato scritto e detto, anche da parte della giurisprudenza, mi preme soltanto soffermarmi su un particolare profilo – esaminato nella decisione del TAR Lombardia, Brescia 22 maggio 2006 n. 603 – che io trovo poco convincente se non fuorviante (nella sua apparente “razionale democraticità”).

Come è noto l’esposizione del crocifisso a scuola è prevista dall’art. 118 del regio decreto 30 aprile 1924 n. 965 per l’istruzione media (secondo cui “Ogni Istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re”); disposizione poi estesa ad altre scuole dal regio decreto 26 aprile 1928 n. 1297, che all’art. 119 dispone che il crocifisso rientri nella “Tabella degli arredi e del materiale occorrente nelle varie classi e dotazione della scuola”. Premesso che, sulla vigenza di tali disposizioni degli anni ’20 – dal punto di vista formale-legislativo – anche alla luce dell’Accordo concordatario del 1984, la maggioranza della giurisprudenza si è pronunciata a favore, anche in considerazione del fatto che il suddetto Accordo “conferma” il riconoscimento dei principi del cattolicesimo come facenti parte del “patrimonio storico del popolo italiano” (art. 9, n.2). D’altra parte, dal punto di vista più sostanziale, non parrebbe che tale previsione del crocifisso possa derivare dal vecchio principio “della religione di Stato”; in effetti non si tratta di difendere la “confessionalità dello Stato” italiano, ma semmai di rispettarne la concreta evoluzione storico-identitaria.

Ad esempio, molto opportunamente a questo riguardo, il TAR Veneto (con sentenza del 17 marzo 2005 n. 1110) ha sostenuto che il crocifisso costituisce anche un simbolo storico-culturale dotato di valenza identitaria in riferimento al nostro popolo, rappresentando “in qualche modo il percorso storico e culturale caratteristico del nostro Paese e in genere dell’Europa intera e ne costituisce una efficace sintesi”. Dal punto vista, poi, religioso – precisa il TAR - esso è il simbolo del cristianesimo, il quale si pone, rispetto ai valori sanciti dalla Costituzione, in modo assolutamente “compatibile” (giustificando così la collocazione dei suoi simboli nella scuola pubblica). Anzi, in tale prospettiva esso contiene “in nuce quelle idee di tolleranza, eguaglianza e libertà che sono alla base dello Stato laico moderno e di quello italiano in particolare”, costituendone una delle sue più significative “radici”, con la conseguenza – sempre secondo il TAR – che “sarebbe sottilmente paradossale escludere un segno cristiano da una struttura pubblica in nome di una laicità, che ha sicuramente una delle sue fonti lontane proprio nella religione cristiana”. Pertanto, conclude il TAR, il crocifisso può essere legittimamente collocato nelle aule scolastiche pubbliche in quanto non solo non è contraddittorio, ma addirittura confermativo (e per certi versi ispirativo) del principio di laicità repubblicana.

Anche il parere della sezione seconda del Consiglio di Stato del 15 febbraio 2006 ritiene che “nell’attuale realtà sociale il crocifisso deve essere considerato non solo come simbolo di una evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato che trovano espresso riconoscimento nella nostra Carta costituzionale”. Interessante, infine (evitando di prendere in considerazione altre pronunce), la famosa sentenza della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 18 marzo 2011 n. 234, la quale sostanzialmente afferma che “pur essendo comprensibile che la ricorrente possa vedere nell’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dai figli una mancanza di rispetto dello Stato del suo diritto di garantire loro un’educazione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni filosofiche, la sua percezione personale non è sufficiente a integrare una violazione dell’art. 2 del protocollo n. 1”. Tenendosi anche conto – prosegue il Tribunale europeo – che il crocifisso, oltre ad avere un significato religioso, simboleggia anche i principi e i valori che fondano la democrazia e la civilizzazione occidentale (trattandosi di “un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose”).

Tale ultima sentenza mi pare ponga due questioni decisive, che risultano utili per esaminare l’aspetto centrale su cui vorrei richiamare l’attenzione (relativo alla citata decisione del TAR Lombardia del 22 maggio 2006 n. 603), vale a dire: la non rilevanza della “percezione personale” del fenomeno (in se stessa rispettabilissima, ma non in grado di incidere sui valori specifici di una comunità nazionale); ed il carattere “passivo” del simbolo religioso in discorso, posto come “pietra” storica per ricordare la nostra civiltà (soprattutto, anche se non esclusivamente, dal punto di vista religioso), piuttosto che come elemento associato ad una volontà di rendere obbligatorio un percorso di adesione religiosa, che dovrà invece restare sempre e soltanto personale (con l’avvertenza però che più il sentimento religioso sarà autenticamente “personale” e maturo e più si rifletterà concretamente nella vita esterna e quotidiana).

Del resto fu lo stesso Concilio Vaticano II ad affermare che “la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata” (così Dignitatis Humanae, n. 2).

Secondo la citata sentenza del TAR Lombardia – premesso che il riconoscimento del valore storico della religione cattolica “può essere utilizzato anche come criterio per regolare quelle situazioni in cui la visibilità dei simboli religiosi all’interno degli edifici scolastici (e pubblici in genere) fa parte di consuetudini radicate” – si può dare piena legittimità e rilevanza a tali simboli finché siano “condivisi” da quanti frequentano gli edifici scolastici. Salvo, in considerazione dell’autonomia spettante alle singole istituzioni scolastiche, la possibilità di deferire ai relativi organismi collegiali – con il coinvolgimento delle famiglie, dei docenti e degli studenti – la regolamentazione “negoziata” sulla permanenza o meno di quei simboli.

Tale soluzione potrebbe apparire molto democratica e rispettosa dei diritti di tutti, anche alla luce del fatto che gli stessi credenti devono evitare di essere – come ci esorta anche Papa Francesco - “cristiani ideologici” (più preoccupati della rilevanza istituzionale e formale della fede, che non invece al suo carattere essenziale, personale e concreto); tuttavia questa prospettiva non mi pare convincente, né sul piano della coscienza del singolo cittadino né, ancor meno, sul piano della tutela della nostra civiltà e dei suoi valori identitari.

Sul primo punto, il lasciare ad ogni scuola la scelta sull’eventuale esposizione dei simboli religiosi (“a parte che il dato normativo non lo consente”), appare dubbio che, per la delicatezza della materia, “possa essere la maggioranza a decidere”. In effetti, vanno rispettate le libertà di ciascuno sul piano personale, senza confondere il piano individuale di coscienza da quello istituzionale-simbolico. Anche a livello costituzionale la tutela accordata è prevalentemente a livello personale, garantendo a ciascuno quella necessaria libertà di coscienza coerentemente al fondamentale principio personalista del nostro ordinamento. Ma soprattutto, sul secondo punto, appare non convincente affidarsi a circoscritte realtà territoriali e settoriali: i valori – morali, spirituali, culturali, religiosi – sono frutto della lenta evoluzione storica della società e si sedimentano attraverso lunghi processi interpretativi e simbolici, di cui è persino molto difficile distinguere e isolare singoli fattori evolutivi. Più in generale, oggi si assiste ad un impoverimento assiologico, per cui “ha valore soltanto quello che nasce dall’accordo convenzionale tra le parti”.

Pertanto non è il “relativismo” la miglior chiave interpretativa della verità – nemmeno di quella storica – ma semmai il bilanciamento – che è altra cosa – tra istanze oggettive e istanze soggettive. Faccio un esempio concreto per capirci. Se è vero che il fumare è dannoso alla salute – e questo è un fatto scientificamente oggettivo – non devo rimettere la questione sulla sua dannosità ad una votazione, ma semplicemente rispettare il diritto – soggettivo – ad auto-danneggiarsi del singolo individuo, garantendo poi il principio di non costringere gli altri al fumo passivo. Pertanto, tra mille persone va rispettato anche il diritto di un singolo fumatore, il quale però ottiene la protezione di quel diritto non facendo togliere il cartello sul divieto di fumo dai locali (neppure per votazione), ma semplicemente (e sufficientemente) per il principio generale di autodeterminazione, nel rispetto generale delle libertà individuali (sue e degli altri).

Infine, pensiamo al fatto che anche un ladro va rispettato (tra l’altro, l’art. 27 della nostra Costituzione prevede proprio la rieducazione del condannato); ma va sempre rispettato come uomo (sul piano “soggettivo”) in base ad alti principi giuridici, etici (e religiosi, di cui il cristianesimo ci ha fornito un forte insegnamento sul perdono) e non certo togliendo (sul piano “oggettivo”) il reato di furto! (altrimenti confondiamo l’aspetto “soggettivo” con quello “oggettivo”).

Il fatto allora che la scuola esponga simboli religiosi i quali, anche quando esprimano messaggi universali, appartengano ad una specifica storia civile e religiosa (che riguarda la sfera delle libertà individuali di coscienza), non dovrebbe costituire alcun rischio educativo o, peggio, alcun ostacolo alla maturazione delle libertà individuali, sia perché i valori della storia ci vengono in qualche modo “oggettivamente” consegnati, e sia perché è illusorio affermare una presunta “neutralità” come unica condizione di asettica trasmissione dell’educazione e del sapere.

Non si tratta allora di “nascondere” i simboli della propria civiltà, ma si tratta fondamentalmente di rispettare anche un solo individuo che segua un’altra linea o un altro credo; si tratta di praticare la tolleranza, il rispetto, l’amore del prossimo, non la smemoratezza collettiva e istituzionale, di esercitare un libero e altissimo dialogo tra individui, e non di far tacere – tra le molteplici voci in gioco – quella più onestamente agganciata al principio di realtà della nostra storia. Ben sapendo che il crocifisso non è un vessillo di attacco e di potenza, ma un salutare monito di umiltà e di amore, massima espressione della gloria divina proprio perché incentrato sul sacrificio e sull’oblio di sé; fonte perenne di carità e di delicatezza per gli altri, che impegna maggiormente i credenti proprio a beneficio di tutti, compreso chi non crede, perché esso ci spinge a donare senza chiedere nulla in cambio (come indica il profetico annuncio di San Giovanni Paolo II di “non avere paura di Cristo”).