Ai tempi della scuola, quando studiavamo le letterature greca e latina, non sempre c’era da stare allegri perché eravamo costretti a misurarci con celebri, qualche volta noiosissimi, poetici lamenti. Si lamentavano dolorosamente e tragicamente per lo più eroine dei poemi e delle tragedie e con loro pativamo anche noi che ci destreggiavamo faticosamente con i dizionari, spesso ricorrendo, un po’ proditoriamente, ai benemeriti traduttori interlineari, in vista di possibili interrogazioni, sempre col timore di ritrovarcele tra i piedi nei compiti in classe.

Loro versavano fiumi di lacrime e di gemiti per amore, noi, versavamo fiumi di sudore sulle pagine dei libri con l’obbligo di studiare, qualche volta addirittura di imparare a memoria, le loro tristissime litanie, il cui valore artistico e pedagogico ci sfuggiva.

Campionesse indimenticate della lamentazione erano soprattutto Medea, Arianna e Didone. Medea, dopo aver aiutato il consorte Giasone a conquistare il famoso vello d’oro, viene ripudiata da quell’ingrato senza cuore, che sposa, per bieco interesse dinastico, Glauce figlia di Creonte re di Corinto; e così si sfoga con violenza inaudita con le donne di Corinto, lanciando furenti maledizioni contro tutta la dinastia regnante e meditando atroce vendetta. Simile il destino di un’altra sfortunata e illustre tradita, la povera Arianna, che dopo aver astutamente consentito col suo celeberrimo filo all’adorato Teseo di uscire dal labirinto di Creta, dopo aver ucciso il tremendo Minotauro, viene abbandonata, stupita e disperata sull’isola di Naxos; ma lungi dal meditar tremenda ritorsione, esprime disperatamente il desiderio di morire. A Didone, lasciata sbalordita e affranta a Cartagine dal pio Enea che, dopo aver abbondantemente goduto delle sue grazie, deve partire per seguire il suo impegnativo destino di creare le condizioni per la nascita di Roma, non resta che il suicidio.

Ne avevano, dunque, di motivi, e assai seri per lamentarsi. E ne hanno avuto di valide ragioni tutte le protagoniste e i tutti protagonisti delle varie forme di “lamento” che, come componimento in prosa o in verso, ha avuto un successo assai consistente, dall’Iliade dove risuonano in forme diversissime i due lunghissimi lamenti di Achille per la morte di Patroclo e di Andromaca per quella di Ettore, alla poesia ottocentesca. Per non dire del suo successo nei libretti d’opera. Monteverdi e Piccinni, e primi fra tutti Palestrina, saranno veri e propri, inarrivabili maestri del lamento cantato.

Per chi si dovesse scoprirsi appassionato del genere, dimenticando le torture scolastiche, la lettura potrebbe offrire tristissimi spunti di deprimenti emozioni, come, tanto per citare qualche autorevole esempio, il Lamento dei Nibelunghi, l’antichissimo Lamento della Natura di Alain de Lille, i Lamenti in versi di Edmund Spenser, o anche - e qui si va proprio sul sicuro - le Lamentazioni di Geremia dell’Antico Testamento, dalle quali nasce, come è noto, il termine geremiade, il cui inequivocabile significato, preso, per stare tranquilli, dal Vocabolario Treccani, è “piagnisteo, discorso lamentoso e importuno”.

Chi non ha passione per la lettura ha un’alternativa efficacissima: la televisione. Che con i suoi ormai continui talk show, le lunghissime interviste, le inchieste meticolose, i processi spettacolarizzati offre una gamma completa ed esaustiva di lamentazioni e piagnistei, che coprono una casistica davvero sconfinata.

Si può certamente prendere atto che di questi tempi siano assai pochi i motivi per stare allegri, non preoccuparsi e non dolersi. Ma quello che allarma è che i lamenti più tenaci e incontenibili non si manifestino nei dibattiti dedicati alla salute o all’economia, nel corso dei quali pessimismo e ottimismo, fatalismo rinunciatario e attivismo propositivo si incontrano e scontrano. Sono il tifo calcistico e le corna coniugali a riscuotere, in tema di lamento, una audience altissima, che è tanto più sconfinata e soddisfacente, quanto più è incontrollata ed esagerata è la geremiade pseudo-tecnica del calciatore in pensione per il rigore negato alla squadra del cuore, e quanto più scollacciati e urlati i lamenti accusatori incrociati di coniugi, che senza pudore si affrontano e ai quali non serve che un bip nasconda le frequenti parolacce, perché il labiale, quando si pronuncia la doppia zeta del principe indiscusso del turpiloquio, è inequivocabile.

Si vede assai spesso in televisione un noto e colto professore, espertissimo di politica, che sta sempre col capo reclinato sulla spalla e gli occhi tristi e socchiusi e risponde con aria rassegnata e stanca, sfiduciata e mesta, qualunque sia la domanda che gli viene rivolta. Si vede frequentemente un noto psichiatra che non ha mai una parola di incoraggiamento e di speranza qualunque sia il tema trattato. Si vede altrettanto frequentemente un’avvenente attrice, peraltro brava e di successo, alla quale pare che non gliene sia andata bene una. Si vede un allenatore calcistico che, pur essendo notoriamente benestante, non sorride mai e sembra attirarsi la sfortuna e i goal avversari nella porta della sua squadra. E i presentatori, coordinatori di tanto parlar querulo? Non di rado gridano come ossessi, provocano maliziosamente, eccitano astutamente, stizziscono dispettosamente.

Sarà per questo che quelli della nostra generazione che hanno sofferto insieme a Medea e Arianna, con i Troiani e i Nibelunghi, cercano di reagire all’incipiente depressione di tutte le sere e, per evitare di lanciare il telecomando nello schermo del televisore, preferiscono usarlo per andare a zonzo tra i numerosi canali, nei quali un vecchio film di Frank Capra, di Billy Wilder o di Totò si trova sempre.