There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in your philosophy.

(W. Shakespeare, Hamlet)

L’ultima volta in cui mi recai a Parigi, mi pare ormai un secolo fa, andai a vedere il Museo dell’Uomo, nella splendida Place du Trocadero, il più famoso museo etnografico d’Europa e forse del mondo, in cui da anni mi ripromettevo di andare.

Nelle sue austere stanze il celebre Musée de l’Homme raccoglie una sterminata collezione di reperti antropologici, espressione delle culture umane dalla preistoria ai giorni nostri, e di tutte le immagini e gli oggetti che vidi quelli che mi rimasero più impressi furono le statue e le maschere raccolte dalle numerose spedizioni organizzate dall’istituto in Mali, a Sud del Sahara, e precisamente nella terra dei Dogon, antichissima etnia che da secoli vive in quella lontana regione del continente nero.

Quei volti stilizzati, quelle figure cristallizzate in posture ieratiche, solitarie o a coppie, sovente nello atto di abbracciarsi o di proteggersi l’un l’altra mi ricordavano fisionomie già viste nei bassorilievi di KarnaK o di Luxor, profili della statuaria dell’antico Egitto ma stravolte in un incubo cubista, una immagine così esotica e di così straordinario impatto emotivo, che risvegliò in me il viaggiatore sopito, offuscato dalle brume europee, che improvvisamente si dissolvevano in una visione di caligine abbagliante, dove nere ombre sotto un sole spietato intonavano una ipnotica nenia tribale.

Una smania di viaggiare, di scrollarmi di dosso tutti gli incubi recenti e di inoltrarmi nel cuore della Africa, culla dell’umanità, mi colpì come un pugno allo stomaco ma sapevo bene che per una lunga serie di ragioni storico politiche, ora quei luoghi erano praticamente irraggiungibili.

Ma la curiosità era grande e decisi allora di conoscere qualcosa di più sugli artefici di una tale malia scolpita nel legno di baobab e così conobbi la storia del vecchio Ogotemmeli e delle sue stelle che per una volta almeno mi costrinsero a guardare il cielo con occhio diverso.

Negli anni Trenta del secolo scorso il Musée de l’Homme organizzò una spedizione scientifica nella Africa subsahariana, membri dell’equipe erano anche Marcel Griaule e Germaine Dieterlen due giovani ma già affermati professori di Etnoantropologia della Sorbona.

Quando raggiunsero il Mali, sentirono parlare spesso di un vecchio saggio che godeva di un immenso prestigio presso il popolo dei Dogon e la cui grande fama era giunta di bocca in bocca fino ai due scienziati che mandarono messi a quell’Omero africano con la richiesta di poterlo incontrare.

La richiesta venne accolta ed ebbe così luogo il primo contatto tra loro e l’anziano sapiente Dogon. Questi, ormai avanti negli anni e cieco per un incidente di caccia occorso in gioventù era un uomo estremamente intelligente e possedeva un intuito fuori del comune che gli permise di cogliere il senso degli studi di Griaule e Dieterlen e comprese immediatamente che avrebbe potuto salvaguardare per il futuro la ricchissima tradizione del suo popolo, finora tramandata esclusivamente per via orale, solo consegnandola ai due studiosi anche se ciò non avvenne se non dopo molto tempo.

Essi, da parte loro, iniziarono a trascorrere lunghi periodi di tempo tra i Dogon guadagnandosi la loro fiducia, anche se solo diciassette anni dopo il loro primo incontro vennero ritenuti degni di accedere ai primi stadi di conoscenza della religione e delle tradizioni del popolo di Bandjagara.

Sotto la guida del saggio Ogotemmeli, spinto forse anche dal presentimento della sua fine imminente, vennero iniziati a misteri inauditi e da quella lunga intervista che si svolse per 33 giorni Marcel Griaule trasse il celebre saggio il Dio d’Acqua che stravolse completamente il modo di approcciare la mentalità nera e dei popoli primitivi in generale.

Ma chi erano i Dogon? Quale era la loro origine?

Sembra fossero schegge dell’immenso impero dei Garamanti, distrutto dagli Arabi mussulmani verso l’anno mille e nel quattordicesimo secolo, fuggendo dai conquistatori, giunsero nell’odierno Mali e precisamente nel più formidabile caos di rocce di tutta l’Africa: la falesia di Bandjagara, a Sud del grande fiume Niger dove viveva da secoli il popolo di origine boscimane dei Tellem.

Ora non è chiaro se i nuovi arrivati si siano fusi pacificamente o se abbiano sottomesso i Tellem con la forza, fatto sta che in breve di loro si perse ogni traccia e la loro memoria sopravvisse proprio grazie ai Dogon.

In seguito, si ritenne che i piccoli Tellem in parte si siano spostati nell’odierno Burkina Faso ed in parte si siano uniti ai Dogon che di loro ebbero sempre rispetto e considerazione tanto che ancora oggi le loro statue si chiamano appunto Tellem.

Infatti, i conquistatori si trovarono di fronte un ambiente ideale per nascondersi ma proprio per questo assai difficile da colonizzare trattandosi di falesie verticali con rari passaggi e grotte raggiungibili solo con vertiginose scale o arrampicandosi su liane che allora, essendo il clima molto più fresco ed umido, si abbarbicavano a festoni sulle ripide sponde del canyon.

Inizialmente i Dogon, vedendo i piccoli ed agili Tellem sparire nelle loro incredibili città alveare, strana sintesi di preistoria e di fantascienza, situate su cengie o in grotte apparentemente irraggiungibili, credettero fossero dotati di poteri sovrannaturali, che sapessero volare, ma poi impararono da loro a muoversi in quell’incredibile mondo verticale.

Fatto sta che in poco tempo divennero i signori di Bandjagara e iniziarono a circondarsi di una sinistra fama, si fecero conoscere come popolo primitivo e feroce, che praticava sacrifici umani ed i cui stregoni officiavano strani e terribili riti in feste innominabili dedicate a dei oscuri confinati nelle più remote regioni dell’universo.

Ben presto attorno a loro aleggiò il terrore. Questa nomea di popolo truculento e primitivo e l’inaccessibilità del luogo ove viveva protesse per secoli i Dogon dai conquistatori Arabi, dai mercanti di schiavi, ed infine anche dal colonialismo francese e fino all’ arrivo di Griaule e Dieterlen ben poco si sapeva di loro.

Come dicevamo quindi, dopo diciassette anni di “apprendistato” i due professori della più illustre università di Francia vennero finalmente ritenuti, dal consesso di saggi di un popolo primitivo, degni di conoscere i segreti della loro mitologia e incaricarono proprio il vecchio stregone Ogotemmeli di rivelarglieli.

Egli disse ai due scienziati che, come tutti i Dogon sanno bene, la terra gira su sé stessa e gira attorno al sole in 12 mesi, Giove possiede numerosi satelliti, Saturno possiede due anelli, e le Galassie si espandono a spirale e in loro, da qualche parte, c’è vita intelligente.

Tutto ciò, riferito da un popolo che viveva ancora come nell’età del bronzo, era già abbastanza sorprendente, ma le rivelazioni di Ogotemmeli continuarono.

Esiste una stella invisibile agli occhi, disse, che in cinquant’anni ruota attorno a Sirio, si chiama Digitaria ed è molto piccola ma così pesante che tutti gli uomini della terra non riuscirebbero a sollevarla.

Mentre parlava agli scienziati sempre più sbigottiti, il vecchio sapiente disegnò uno schema nella sabbia che era sostanzialmente uguale a quello che, nei moderni testi di astronomia, viene usato per indicare il sistema binario di Sirio A e della sua compagna Sirio B, una nana bianca super densa, un cucchiaino della quale pesa come una portaerei e la cui spaventosa attrazione gravitazionale fa sfuggire una quantità di luce così debole da renderla invisibile agli occhi e che infatti è stata scoperta dagli astronomi moderni solo alla fine dell’800 e fotografata la prima volta solo nel 1970.

Come i Dogon siano venuti a conoscenza del fatto che Sirio abbia una compagna di tal fatta rimane avvolto nel più assoluto mistero.

Ogotemmeli diede la sua spiegazione dell’enigma ma lo spiegò in un modo che lasciò ancor più esterrefatti Griaule e Dieterlene, secondo la Tradizione: il dio dell’Universo, Amma, aveva mandato sulla Terra il Nommo, l’antico Progenitore, che atterrò con la sua arca nell’arida Terra della Volpe, a Nord-Est del territorio dei Dogon e questo avvenne tanto tempo fa.

Mentre l’arca dell’antico patriarca, il Nommo, scendeva, una enorme nuvola di polvere si sollevò ed esso era rosso come il fuoco ma poi divenne bianco, intanto una nuova stella era comparsa in cielo e sparì quando il Nommo se ne andò.

Praticamente il racconto primitivo ma incredibilmente dettagliato di quello che sembra essere l’incontro, avvenuto in tempi immemorabili, tra un visitatore extraterrestre che scende con la sua astronave incandescente per l’impatto con l’atmosfera, che atterra raffreddandosi in una nuvola di sabbia e di polvere, “feconda” il luogo, l’arida terra della Volpe, dando origine al popolo dei Dogon, lasciando peraltro un eredità di straordinarie conoscenze astronomiche per poi tornare all’astronave madre, la nuova stella bianca comparsa nel cielo, che sparisce con la partenza del Nommo.

Naturalmente Marcel Griaule, che nel suo celebre saggio il Dio d’ Acqua riporta questi dialoghi con Ogotemmeli, sollevò un grandissimo interesse nella comunità scientifica internazionale ma anche un mare di polemiche: venne tacciato di frode intellettuale per aver influenzato il suo informatore, si è addirittura andati a tirare in ballo la possibilità che alcune spedizioni astronomiche ottocentesche avrebbero “passato” queste conoscenze ai Dogon e altri simili tentativi di declassare il mistero a contaminazione culturale se non a mistificazione vera e propria, come si legge, ad esempio, nella ridicola presa di posizione del CICAP, comitato italiano per il controllo sulle affermazioni delle pseudoscienze, che anche in questo caso non poteva esimersi dal gettare la sua sterile sabbia su ogni barlume di mistero e di fantasia che venga ad intercettare col suo severo occhio indagatore e che con una reazione isterica si è affrettato a dimostrare come sia improbabile la vita nel sistema di Sirio, come non sia dimostrato che Sirio B abbia pianeti ecc. ecc.

Ma Ogotemmeli aveva in serbo un’ultima sorprendente rivelazione: “Digitaria non è la sola compagna di Sirio, la stella Emme ya sorgo femmina è più grande di Digitaria e quattro volte più leggera e viaggia su una traiettoria maggiore nella stessa direzione. Sorgo femmina è la sede delle anime di tutti gli esseri viventi presenti e futuri, esse vivono immerse nelle acque degli stagni familiari”.

Poco tempo dopo aver consegnato a Marcel Griaule il cuore della sapienza della sua gente, il vecchio saggio Ogotemmeli morì e in quel tempo la sua ultima enigmatica rivelazione non ebbe grande rilevanza perché allora nessuno sospettava che Sirio potesse avere una terza compagna.

Trovo che questa storia sia bellissima oltre che estremamente affascinante.

È la sintesi mirabile tra due grandi sapienze: il sapere tradizionale e una scienza moderna umana e rispettosa dei tempi e della mentalità antica, che si pone sullo stesso piano di un punto di vista che vede le cose con occhi diversi dai propri ma che proprio per questo, perché non sperarlo, può svelare, riaprendole, vie di conoscenza dimenticate e quindi nuove per noi che siamo ben più inariditi della arida terra della Volpe.

Negli ultimi anni, studiando l’analisi del moto orbitale del sistema binario Sirio A-B, i radiotelescopi hanno rilevato la presenza di una sorgente perturbativa incognita che potrebbe essere un terzo compagno di Sirio A.

Attualmente il sospetto sembra aver raggiunto un’attendibilità del 90% ed essersi concretizzato nella presenza di un astro non visibile, orbitante attorno all’astro maggiore con un periodo di 6,3 anni, una minuscola stella nana rossa con una luminosità non superiore al grado 15 di magnitudine apparente: Sirio C, la Emme ya ben conosciuta dal vecchio stregone Dogon.

Se questo venisse dimostrato in maniera inconfutabile, se si venisse a scoprire che un popolo affascinante ma primitivo, seppellito nel cuore dell’Africa selvaggia sapeva dell’esistenza di Sirio C secoli prima della scienza ufficiale, cosa rimarrebbe delle nostre certezze? Quale mistificazione o quale contaminazione culturale potrebbe essere accampata per spiegare questo enigma e difendere la nostra decrepita roccaforte di certezze razionali dall’irruzione vivificante dell’inconoscibile Mistero?