Il valore culturale, spirituale, religioso dei Libri sapienziali è immenso. La Bibbia non è un Libro soltanto da continuare a rileggere (per tentare di capire qualcosa) e da pregare (per cercare di ricevere qualche fiamma divina), ma soprattutto da vivere, usando quelle parole sicuramente per poterci meglio orientare nella nostra navigazione, ma ancor più per assaporare la gioia della nostra meta finale, che è Dio stesso (nell’immensità della gloria trinitaria, fonte viva di eterna comunione d’amore, in cui ritroviamo la potente esistenza e il meglio di tutto e di tutti).

Nella straordinaria ricchezza della Bibbia, trovo infinitamente belli (mai dimenticare del resto che Dio è sublime bellezza) i versi – luminosissimi e perciò spesso oscuri (perché il mistero di Dio è sempre un eccesso di luce abbagliante) – dei cinque Libri sapienziali, che sono: Giobbe, Proverbi, Qoelet, Sapienza e Siracide (secondo alcuni, poi, si potrebbero anche aggiungere i Salmi e il Cantico dei Cantici). Nello spazio di queste poche righe, non utilizzerò la lente del biblista (che non sono), né quella del teologo (che, forse, sono), ma cercherò soltanto di proporre una breve passeggiata attraverso qualche filo d’erba del bosco lussureggiante e immenso della Bibbia (questa straordinaria “lettera d’amore” scritta da Dio per l’umanità). Ben sapendo che “il bosco cambia continuamente: è diverso in ogni ora del giorno, cambia volto e vestito quando cambia il tempo e al variare delle stagioni. Anche la Bibbia offre un volto diverso per ogni momento della giornata, per ogni stagione della vita e per ogni stato d’animo del suo lettore” (così il biblista Gastone Boscolo).

Perché mi inebriano così tanto i Libri sapienziali? È difficile rispondere, anche perché certe attrazioni sono istintive e profonde, impossibili da scandagliare in modo chiaro e completo. Due ragioni potrebbero essere queste: sia la stupenda poeticità dei testi – che anche dal punto di vista letterario raggiungono vette altissime – e sia la profondità dei detti, spesso inversamente proporzionale alla loro lunghezza. Infatti, questi brevissimi brani sono una sorta di “proverbi celesti”, che nel momento in cui illuminano il nostro umile sentiero terreno ci alzano lo sguardo alle infinite perfezioni divine. Vorrei però cercare di illustrare meglio quest’ultimo aspetto, relativo alla sostanza del discorso sapienziale. A me pare che ci sia un forte – quanto implicito – discorso cristologico (già riconosciuto dai Padri della Chiesa); d’altra parte Cristo è sempre al centro, sia dell’Antico Testamento (a cui appartengono i Libri sapienziali) – come privilegiato momento preparatorio – sia del Nuovo – come privilegiato momento rivelativo - sempre in attesa del compimento finale della storia, dove cielo e terra si riuniranno definitivamente tramite Lui.

Ad esempio, San Paolo, nella stupenda prima Lettera ai Corinzi (1,24) afferma che “noi predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio”, insistendo più avanti come la predicazione non si fondi sulla conoscenza umana, ma sulla manifestazione dello Spirito e sulla potenza di Dio (vale a dire sulla Sapienza divina, incarnata dal Signore). Senza contare, poi, la vertigine del prologo di Giovanni, laddove afferma (rispetto all’eternità di Cristo): “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui”. Ecco allora la Sapienza creatrice dell’universo: “Dall’eternità sono stata costituita, fin dal principio […] quando disponeva le fondamenta della terra, allora io era con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno” (Proverbi 8,23.29). E poi ancora: “La sapienza è il più agile di tutti i moti; per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa. È un’emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell’onnipotente […] Essa in realtà è più bella del sole e supera ogni costellazione di astri; paragonata alla luce, risulta superiore; a questa, infatti, succede la notte, ma contro la sapienza la malvagità non può prevalere” (Sapienza 7,24-25.29). A questi versetti fa eco il Vangelo di Giovanni (8,12): “Di nuovo Gesù parlò loro: Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”.

Oltre a questa coincidenza “soggettiva” - tra Sapienza e Spirito di Cristo - si può scorgerne un’altra, più “oggettiva”: tra l’essere e l’agire di Cristo e la Sapienza. La pienezza della suprema “legge” che Gesù ci ha consegnato è l’amore (“amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. […] E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso”, Matteo 22,37.39). Questa essenzialità (bellezza, urgenza, necessità) dell’amore ci esorta a viverlo nella concretezza della nostra quotidianità, con le persone a noi più vicine, cioè nell’oggi del momento presente (che è il vero “tempo” di Dio). La Sapienza, nel donarci “consigli” per la nostra esistenza (e già San Tommaso d’Aquino ci spiegava come la sapienza sia inseparabile dall’amore), ci spinge ad eguale nobile concretezza: non tanto per garantirci immediati e sicuri risultati (giacché “ho visto sotto il sole che non è degli agili la corsa, né dei forti la guerra e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la ricchezza”, Qoelet 9,11), ma per infonderci l’incanto genuino della sua luce che irradia nel buio del nostro cuore, donandoci un anticipo di paradiso (il famoso, “già ma non ancora”).

Ecco perché la Sapienza (come ci ricorda Sapienza 7,18) ci fornisce la conoscenza (non per intelletto, ma per grazia soprannaturale) non soltanto del principio e della fine, ma della “metà dei tempi”, con l’avvertenza che la “meta” ultima può essere già presente in questo provvidenziale aiuto-ristoro nell’oggi (“metà”) del nostro viaggio terreno verso il cielo.