Santo Stefano Belbo (CN) cela un gioiello unico: la Fondazione Cesare Pavese. Un museo al cui interno è possibile ‘respirare’ quelle che furono le massime fonti di ispirazione dello scrittore. Stanze nelle quali si rivive tutta la sua potenza narrativa e la connessione con la città di adozione: Torino.

Ne abbiamo discusso con il Direttore della Fondazione: Pierluigi Vaccaneo, il quale ha recentemente pubblicato un volume che ben sottolinea l’anima scissa di Pavese, tra città e realtà rurale.

Le chiederei, innanzitutto, qualche dettaglio sulla genesi del libro: A Torino con Cesare Pavese. Un arcipelago interiore. Com’è nata l’idea di passare da ‘un’isola’ all’altra? Quali legami possiamo riscontrare con i suoi precedenti lavori dedicati a Pavese?

Il viaggio di Pavese è un viaggio omerico, un viaggio alla ricerca di un’Itaca interiore che possa dare al poeta Pavese e all’uomo Pavese un segno di appartenenza, di identità. Ogni personaggio di Pavese è in viaggio, alla ricerca di un rito di passaggio, di un momento iniziatico che lo porti ad abbracciare, compiutamente, una nuova fase esistenziale. “Ripeness is all” è l’attacco de La luna e i falò e con questa citazione Pavese definisce il senso del suo errare, del suo raccontare. La maturità è tutto diventa il traguardo di ogni esistenza da tagliare dopo aver attraversato ritualmente ogni fase della vita. È il Mito Pavese, il significato attorno cui ruota tutta l’opera dello scrittore. La metafora del viaggio iniziatico è dunque il motore narrativo che ho scelto per costruire il mio viaggio all’interno dell’universo pavesiano.

Da sempre ho cercato di indirizzare le mie ricerche su Pavese all’analisi della sua opera, dei suoi testi. Parole che sono il suo unico e vero testamento cui possiamo fare affidamento a prescindere dal dato biografico che ritengo, a 71 anni dalla scomparsa, accessorio per comprendere a fondo il senso vero del suo percorso intellettuale. Pavese va cercato nei suoi personaggi, nella campagna e nella città de La luna e i falò e della trilogia della Bella estate, nel Mito di Leucò, in quell’universo simbolico che ha modellato per trovare la rotta verso Itaca, verso il suo senso di appartenenza, di identità.

Come descriverebbe il rapporto tra Pavese e Torino; tenendo conto del dilemma città/campagna che lo accompagnò per tutta la vita?

Non si può parlare di città senza parlare di campagna. Pavese è stato un uomo di città, nato a Santo Stefano Belbo ma da sempre vissuto in città. Dal paese paterno però Pavese ha tratto tutti i contenuti simbolici, antropologici fondanti la sua opera. La campagna con i suoi verdi misteri è il cuore narrativo di ogni sua opera. Torino, la città, è ciò che non è la campagna. O meglio, la campagna è, la città non è. Tutti i personaggi cittadini sono sempre alla ricerca di un senso, profondo, che non trovano nella vita decaduta della città e sognano, inseguono nell’abbandono panico al dato naturale ed agreste. La campagna è la giovinezza a diretto contatto con il Mito, con i significati profondi dell’esistenza; la città è l’età adulta, la perdita di questo legame profondo con il sacro, il disincanto. Il Pavese uomo vive e lavora a Torino e scappa in campagna per cercare le colline, sé stesso nel loro senso di eternità; il Pavese scrittore racconta questo bisogno che è anche la necessità di vivere o rivivere un passato (l’infanzia) da cui è svelato il paradigma identitario di ciascuno di noi.

Nel suo volume evidenzia un parallelo tra la poetica di Pavese ed il concetto di costruzione. Pensa sia questa la chiave dell’eterna contemporaneità delle liriche pavesiane?

Pavese è molto chiaro nel definire il percorso creativo come un percorso di costruzione di identità. Scrivere è costruire sé stessi come lo è vivere. Ed è proprio questo il motivo per cui leggeremo sempre le opere di Pavese perché sono uno specchio all’interno del quale possiamo ritrovarci e riconoscere il nostro cammino di costruzione in ogni sua fase. E poi il linguaggio: lo strumento linguistico costruito da Pavese ha la perfezione armoniosa della poesia e la forza contenutistica del dialetto veicolate attraverso un registro quotidiano, asciutto e sintetico tipico della grande letteratura americana su cui lo scrittore si è formato. Pavese ha trovato il senso della sua costruzione interiore attraverso la costruzione della sua poetica e questo ha reso la sua opera eterna. Le sue parole sono dunque una traccia, una guida per il lettore che con esse trova la rotta verso l’Itaca interiore.

Passando allo stile narrativo - invece - come crede siano riusciti a modellarlo gli insegnamenti del Professor Monti?

Augusto Monti, in quanto insegnante e mentore di Pavese e di tanti suoi compagni che segneranno il futuro della vita culturale italiana (Giulio Einaudi, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Franco Antonicelli, Massimo Mila, G. Carlo Argan), ha senza dubbio avuto un impatto forte nella formazione dello scrittore ma Pavese costruisce il suo modello narrativo soprattutto grazie al lavoro di traduttore che lo porta a diretto contatto con uno strumento linguistico, la lingua e lo slang americano, per l’epoca prepotentemente innovativo. Fernanda Pivano in un’intervista che con la Fondazione realizzammo per il centenario della nascita dello scrittore (1908 - 2008) disse che in quel periodo in Italia si diceva “il fanciullo raggiunge la dimora” mentre invece in America si diceva “il bambino va a casa”. Si comprende pertanto quanto il modello linguistico americano rappresentasse per un intellettuale di quel periodo una grande opportunità espressiva, più libera e meno vincolata a dogmi o paradigmi comunicativi che Pavese riteneva obsoleti e dunque superabili. Così, grazie alla sua attività di traduttore, si affaccia alla cultura e alla lingua americana e basa su di essa la sua ricerca e sperimentazione linguistica che da Paesi tuoi (esordio narrativo) a La luna e i falò (ultima opera data alle stampa in vita) si sviluppa sempre tenendo presente l’obiettivo di costruire uno strumento comunicativo che fosse compreso su tutto il territorio nazionale (quindi l’Italiano) ma che avesse al proprio interno la potenza semantica di un dialetto.

Lei è direttore della Fondazione Cesare Pavese, dal 2010. Durante il periodo di chiusura fisica, siete stati molti attivi dal punto di vista digitale. Com’è nato il format: ‘Io vengo di là’ e quali sorprese ci riserva il futuro?

L’idea del format ci è venuta per tentare di raccontare, attraverso i luoghi pavesiani di oggi, quelli dello scrittore e delle sue opere. Un viaggio dal reale al simbolico andando a stimolare l’immaginario dello spettatore che attraverso i video di “Io vengo di là” può scoprire un punto di vista su Santo Stefano Belbo che poi potrà ritrovare e scoprire nuovamente quando potremo ritornare a fruire le bellezze del nostro Paese. Dopo le prime otto puntate, dedicate interamente a Santo Stefano Belbo, la seconda stagione del format ci presenta anche Serralunga di Crea e Torino, luoghi legati alla vita privata e quotidiana dello scrittore e pertanto fortemente significativi. Dopo il grande successo delle prime puntate della, chiamiamola, serie stiamo già pensando alla terza e quarta stagione andando a coinvolgere non solo le Langhe ma anche Roma, dove Pavese ha lavorato alla sezione romana della casa editrice Einaudi, la Liguria di Bocca di Magra e Varigotti, la Calabria di Brancaleone calabro. Insomma, un viaggio alla ricerca di un’identità pavesiana e santostefanese attraverso la migliore guida possibile: le sue opere. Oltre a questo, la Fondazione sta lavorando ad una serie di iniziative che caratterizzeranno un 2021 ricco di sperimentazioni: novità editoriali (siamo al lavoro su tre pubblicazioni dedicate alle opere dello scrittore), un podcast dedicato ai Dialoghi con Leucò, un Pavese Festival rinnovato nella formula e un Premio Pavese che da quest’anno si aprirà anche alla poesia e all’internazionale e l’apertura dei sentieri pavesiani: una serie di percorsi outdoor per poter vivere e conoscere a fondo le colline amate dallo scrittore. Insomma, un ente culturale oggi deve per prima cosa mettersi in ascolto della comunità per poter rispondere alle esigenze delle persone con la cultura che oggi, come non mai, si dimostra grande strumento di condivisione, comunione e crescita individuale e collettiva.