Il rapporto che lega l’uomo alla Natura è basato sull’ambivalenza e l’instabilità. È un gioco millenario che si consuma nell’alternanza tra odio e amore, in un territorio dove la dimensione materiale e quella immaginaria si confondono reciprocamente.

Le principali istituzioni umane sono nate in contrapposizione agli ambienti naturali. Lo spazio sottratto alla foresta ha rappresentato una dimora sicura per le prime comunità, dove era possibile coltivare la terra, piantare il proprio “albero genealogico” e garantire la sepoltura dei morti.

Aprirsi un varco nell’oscurità della vegetazione è un deliberato gesto di autonomia, una radicale trasformazione verso l’indipendenza e il dominio.

Allo stesso modo accade nelle società moderne, dove il consumo di suolo rappresenta la principale strategia di controllo e sottomissione degli spazi naturali.

La violenza nei confronti della Natura scaturisce da un istinto di sopraffazione che si materializza attraverso selvagge deforestazioni, incendi dolosi, deturpazione degli ecosistemi, distruzione della biodiversità, inquinamento e abbandono di rifiuti tossici. Tali atteggiamenti sembrano motivati da forze psichiche interne che vedono nell’infierire sull’ambiente la giusta compensazione alle insopportabili angosce esistenziali, prima fra tutte l’inaccettabile consapevolezza della morte.

Nel rapporto uomo-natura esiste un profondo conflitto esistenziale, in particolare, tra la coscienza del presente e l’illusione del mondo materiale.

Nel tentativo di affrancarci definitivamente dalla nostra matrice primitiva percorriamo nuovi sentieri alla ricerca di un’altra identità, oltre le zone di confine, dove la radura e la foresta si toccano, sfumando l’una nell’altra, dove le piante e gli animali si nascondono, sfuggendo al controllo della ragione.

È una lotta senza fine. C’è sempre qualcosa da conquistare e quello che è dominato deve essere a sua volta conservato e difeso, in un’incessante gioco di linee di separazione, di confini materiali e psicologici. Da una parte abbiamo un essere “civilizzato” in cerca di un mondo stabile, sicuro, codificato, all’insegna della razionalità e dello sviluppo tecnologico. Dall’altra abbiamo uno spazio all’insegna dell’imprevedibilità, pervaso dalla complessità e dal caos.

Le radici della Natura affondano nel mondo degli archetipi, da dove affiorano, come potenzialità coscienti, miti, leggende, analogie e frammenti di riti arcaici.

L’acqua e il fuoco, così come le caverne, le montagne e le piante, albergano sotto forma di simboli nel nostro inconscio (individuale e collettivo) e si manifestano, all’occorrenza, come segni di centralità, di trasformazione o redenzione.

Sono suggestioni e scenari onirici che si aprono a nuove dimensioni spazio-temporali.

In questa realtà sommersa la Natura assume la forma di una grande Madre (magna mater) che provvede alle necessità materiali e spirituali dei propri figli. Un affascinante mondo di immagini primordiali la cui essenza richiama i principi dell’ordine universale. Un mito che di volta in volta assume i nomi di Inanna, Iside, Gorgone, Eurinome, Latona, Astarte, Gea, Demetra, Venere, Afrodite, Nerthus, Madonna. Ma ogni gioco di relazioni nasconde una tensione, un conflitto che porta inevitabilmente alla scissione degli opposti.

È una lotta che vede contrapporsi natura e cultura, istinto e ragione.

La Natura selvaggia affascina e allo stesso tempo spaventa. Il bosco incantato, abitato da ninfe e fate, è anche lo spazio delle cerimonie dannate e dei voluttuosi “sabba”, il rifugio dei fuorilegge, la “selva oscura” dei poeti, il labirinto senza uscita di eroi e bambini.

Ogni spazio strappato alla Terra diventa, per l’uomo, un temporaneo “luogo di appartenenza”. Quando questo dominio viene meno, la Natura inesorabilmente riprende il sopravvento e lentamente si riappropria della sua materia: la crepa di un muro, una strada, un giardino, una casa, una città abbandonata, diventano dei confini spezzati, delle forme aperte ... dei “luoghi da restituire”.