Nel 1828, tra aprile e la fine di giugno, lo scozzese Craufurd Tait Ramage intraprende un viaggio solitario nel Regno delle Due Sicilie. Le sue “avventure”, appuntate in lettere e pagine di diario, divengono un volume dal titolo inglese The Nooks and By-Ways of Italy. Wanderings in Search of Ancient Remains and Modern Superstitions, la cui traduzione letteraria in italiano è Angoli reconditi e strade remote d’Italia. Girovagando alla ricerca di antichità e superstizioni moderne ma che viene pubblicato in italiano con il titolo di Viaggio nel Regno delle Due Sicilie. Già il titolo originale chiarisce l’intento del viaggio: visitare luoghi sconosciuti del Meridione italiano alla ricerca di “angoli remoti” nei quali contemporaneamente trovare rovine antiche e modi di vita attuali. I suoi racconti si muovono tra pittoresco e romantico, la simbiosi di storia e natura si rivela prepotentemente, malgrado lo scopo iniziale del viaggio sia stato generato solo da un interesse prettamente storico. Nonostante il suo viaggio nasca come ricerca delle antichità conosciute nei classici, egli, nel percorrere l’Italia meridionale, si “imbatte” nella natura e ne rimane meravigliato. La scelta del suo itinerario è legata all’influenza dei classici prediligendo località come Paestum, Agropoli e il monte della Stella alla ricerca delle rovine di Petilia.

Alla scoperta dell’antico, della storia incisa sulla natura, alla ricerca di “tutti i luoghi resi celebri dagli autori classici”1, il giovane Ramage scopre un paesaggio nobile, comprensivo delle “usanze e costumi degli abitanti, delle loro superstizioni e del loro pensiero religioso”. Quali elementi compongono “il paesaggio italiano nella sua massima espressione?” Ramage li descrive nel dettaglio: le montagne che “si elevano ad altezze considerevoli e son ricoperte di boschi fin sulle cime”; gli agrumeti con i loro profumi; le viti che “crescono in festoni aggraziati appesi tra un albero e l’altro”; la presenza di monasteri – cospicua “in questa bellissima contrada d’Italia”, come dirà in Cilento2 – e di monaci che “curano, o meglio curavano, con grande impegno i loro frutteti […]”3. Le viti sono presenti anche ad Agropoli e “crescevano alla maniera a cui ero ormai abituato, di albero in albero in graziosi festoni che rendevano il paesaggio ancora più bello”4. I colori del paesaggio sono mutevoli come la realtà dei luoghi, con la presenza di differenti microclimi, che entrano nello spirito dell’osservatore: “man mano che salivamo, l’aria si faceva più tersa ed anche la vegetazione era diversa. Da alcuni anni ormai i miei occhi non erano più abituati alla vista di erba verdeggiante e fu vera delizia posare nuovamente il piede sulle zolle erbose”5. Ad Agropoli nei pressi dell’abitato Ramage vede a distanza delle signorine e le descrive: “[…] erano indaffaratissime a lavare i panni in un ruscello, con le vesti tirate su, fin sopra le ginocchia; non mi avvicinai per non disturbarle. Si dice, ma non so quanto sia vero, che le ragazze qui possono sposarsi all’età di dodici anni, possibilità dovuta alla mitezza del clima”.

Come Goethe ed altri illustri viaggiatori del Grand Tour, Ramage, affida il portolano di questo viaggio alla carta e alla penna: “La prima impressione non poteva essere che di stupore”, scrive ammirando Paestum, ma soprattutto la costa ancora incontaminata di Punta Licosa (Castellabate): “Non sono poi tanto schiavo della mania per le antichità da non riconoscere che un panorama, come quello che stavo ammirando, non parli più eloquentemente al cuore e non abbia un influsso morale superiore a qualsiasi opera dell’uomo, per quanto magnifica anche se questa stia a testimoniare una delle pagine più luminose della storia umana”. Ramage, dunque, scopre il paesaggio e lo fa partecipe e protagonista del suo viaggio, una conquista che compie strada facendo, non prevista al momento della partenza. Dalla vetta dello stesso monte della Stella ammira il mare e vi scorge l’isola di Licosa:

Era un paesaggio veramente nobile quello che si spiegava alla mia vista col diradarsi della nebbia; il sole stava calando all’orizzonte e i suoi raggi sfumavano il mare, perfettamente calmo, di una tinta dorata tutte le rocce risplendevano della stessa luce. Dovevo trovarmi per lo meno a cinquecento metri nel livello del mare, ma tale era, in alcuni punti, lo strapiombo della montagna che si aveva l’impressione che si sarebbe potuto gettare un sasso nell’acqua e sentirlo precipitare nel fondo. In altre parti, al contrario, le pendici scivolavano dolcemente in basso e la vegetazione pareva raggiungere l’orlo dell’acqua, perché devi ricordare che qui il flusso della marea è quasi impercettibile. La costa si estendeva a settentrione, con le sue innumerevoli insenature, mentre proprio di fronte al promontorio si trovava un’isoletta che, consultando la carta, scoprii essere l’isola di Licosa, l’antica Leucosia o Leucotea, favolosa residenza di una leggendaria sirena che ammaliava gli uomini portandoli alla rovina. Questa è ora una roccia brulla, ed è probabile che lo sia sempre stata, ma la favola è un’allegoria per dimostrare che, quale fossero le apparenze esteriori, se l’immaginazione rivestiva di bellezza la meliarda, ella pur sempre distruggeva l’individuo […]6.

Nelle poche righe che Ramage dedica al paesaggio di Licosa, è riportato l’elemento caratterizzante di molte altre descrizioni di paesaggi del Sud: la luce. Infatti, il sole illumina il “nobile paesaggio” che i suoi occhi mirano dall’alto “sfumando il mare” e dandogli una “tinta dorata”. La vista di Licosa rievoca in lui i classici, il mito della sirena Leucosia e la vista di quella roccia “brulla” fa dedurre a Ramage che probabilmente sia stata anche un tempo identica a ciò che egli vede. I luoghi citati nei classici non corrispondono alla realtà, infatti, le descrizioni classiche restituiscono ciò che l’immaginazione ha disegnato in precedenza così come i disagi di un viaggio in un paese nel quale “i contadini […] ignorano tutti quei lussi che da noi sono ormai diventati delle necessità per la gente di qualsiasi ceto” provocando “solo rari lamenti”7. Nonostante le differenze di usi e abitudini alla popolazione cilentana, Ramage non formula giudizi o infligge condanne, si limita solamente a riportare quel che i suoi occhi vedono. Nemmeno il cibo costituisce una parentesi piacevole nelle lunghe e costanti traversate a piedi o a cavallo eccezione fatta per qualche bicchiere di vino o per i fichi secchi “quelli che i romani chiamavano Caricae, tenuti in così alta considerazione da essere considerati cibo degno degli dei […]”8. Tra le difficoltà del viaggio va inclusa anche la lingua: “rimasi penosamente contrariato quando mi accorsi che l’italiano che parlavo io, del quale andavo orgoglioso e per il quale ero stato complimentato da persone istruite, era a stento capito dai contadini, e quello che maggiormente mi affliggeva era che io provavo difficoltà a capire loro…”. Talvolta però riesce anche ad avere “una conversazione piuttosto interessante […] che ebbe per soggetto la Costituzione in Inghilterra”9. Ramage racconta, poi, il percorso verso Velia: “Decisi di scendere nella valle dell’Alento ed incamminarmi, come meglio potevo, verso la sua foce nelle vicinanze della quale si trovavano i resti dell’antica Velia. Mi accorsi che la discesa, in certi punti, presentava delle difficoltà assai maggiori di quanto avevo previsto, ma dopo poco mi fu possibile uscire dal sottobosco; nel tentativo di attraversare il letto del fiume mi ritrovai su un piccolo sentiero che mi misi a seguire[…]”10.

Nei pressi di Velia incontra anche un contadino, Ramage scrive: “Dopo poco mi imbattei in un contadino che mangiava insieme alla moglie, al figlioletto ed all’asino e non potei fare a meno di pensare, osservando il loro miserevole cibo, che l’asinello era forse quello che se le passava meglio. Il loro desinare consisteva in un po’ di pane rozzo ed un fiasco di vino che si dimostravano pronti a condividere con me [….]”.

Anche nei pressi di paesi “miserabili” come Ascea11 i declivi sono ricoperti di vigne, ulivi, alberi di fico e querce; i giardini lussureggianti ricchi di alberi da frutto, peri, meli e albicocchi dai quali si ricava sempre un raccolto abbondante.12 Poi verso Camerota “che si adagia graziosamente sui pendii di una collina”13, è un susseguirsi tra campagna incolta e roccia calcarea nuda che “dava fastidio agli occhi”14, e campagna “coltivata in maniera migliore”15.

Le sue riflessioni chiariscono la presenza nel Cilento di più paesaggi. I paesaggi incontrati dai viaggiatori, infatti, cambiano per microclima già se si percorrono pochi chilometri. Ramage, nel visitare il Cilento, a cospetto della vegetazione rimane “sorpreso nel constatare quanto la vegetazione fosse avanzata in paragone a quella che avevo lasciato il giorno prima nelle vicinanze di Napoli. Mi trovavo a soli 100 chilometri più a sud, eppure le foglie qui erano già pienamente sviluppate e i frutti incominciavano a prendere forma. Il terreno sembrava particolarmente adatto agli ulivi, alcuni dei quali raggiungevano dimensioni a me fino allora ignote. Le viti crescevano alla maniera a cui ero abituato, di albero in albero graziosi festoni che rendevano il paesaggio ancora più bello”16. Occhi attenti quelli di questo viaggiatore che oltre alla varietà della vegetazione campana, aggiunge la meraviglia per una natura sconosciuta fino a quel momento e alla quale non si abitua perché, al ritorno in patria, esprime la sua gioia. Ramage, come qualsiasi altro viaggiatore, è legato al gusto personale, alla sua formazione e alle sue origini. Questo filtro culturale soggettivo ha prodotto nuovi paesaggi ogni volta che gli occhi di chi guardava e il luogo osservato sono diventati testimonianze.

Ramage coglie alcune caratteristiche del popolo cilentano e scrive: “Tutto ciò che ho potuto osservare di questa gente mi piace; nulla può superare la bontà, la cortesia e l’ospitalità dimostratami senza distinzione, da tutti quelli che ho avvicinato; per di più, anche se non avessi visto null’altro all’infuori del tramonto dalla cima del Monte Stella, mi considererei pienamente ripagato di tutti i disagi che ho fin qui sostenuto”.

Ramage rappresenta una figura anomala tra i Grand Tourists e la sua esperienza nell’Italia meridionale e in particolare nel Cilento, insieme a quella di Arthur John Strutt, permette di conoscere questi luoghi con lo sguardo di uno straniero: per loro nuova è la vegetazione, nuova la luce che li illumina, nuovi gli usi e i costumi della gente che li abita, nuova è l’alimentazione e la sua frugalità. Niente o poco di quel che descrivono nelle pagine dei loro diari può essere trascurato, esse diventano testimonianze di un’epoca per la quale questi luoghi generalmente legati ad eventi negativi, con gli occhi di uno straniero, invece, assumono nuove e inaspettate qualità.

Note

1 C.T. Ramage, Viaggio nel regno delle due Sicilie, De Luca Editore, Roma 1996.
2 Ibid., p. 53.
3 Ibid., p. 34-35.
4 Ibid., p. 46.
5 Ibid., p. 55.
6 Ibid., p. 56-57.
7 Ibid., p. 13.
8 Ibid., p. 49.
9 Ibid., p. 49.
10 Ibid., p. 65.
11 Ibid., p. 79.
12 Ibid., p. 80.
13 Ibid., p. 97.
14 Ibid., p. 88.
15 Ibid., p. 100.
16 Ibid., p. 46.