Talvolta attendiamo un evento: l’arrivo di un parente lontano, una nascita che ci cambierà l’esistenza, la bicicletta nuova, la consegna del pacco da parte del corriere, un nuovo abbraccio, un viaggio nel luogo desiderato da sempre. L’attesa è di per sé una parte del godimento. Nell’attesa immaginiamo quello che sarà e in anticipo portiamo nella nostra mente e nel nostro cuore le emozioni che proveremo quel giorno.

Attendere significa ‘tendere a’, ci avviciniamo prima a ciò che stiamo aspettando, portiamo già ora a noi quello che speriamo si realizzi. Attendere vuol dire ricevere un acconto del futuro che immaginiamo ci spetti.

Attendere significa assaggiare con un piccolo morso la pietanza che vogliamo che ci sia preparata nella tavola imbandita della nostra esistenza. E non importa che attendiamo qualcosa di grande, come un bebè, o di più semplice, come una mail: l’attesa porta sempre con sé un’emozione mista di desiderio e di anticipo, un po’ di futuro che verrà e un po’ di qui-e-ora modificato, reso incerto, innervato di speranza, intriso di dubbi.

La tensione dell’attendere

Per attendere dobbiamo in primo luogo tendere, allungarci come il braccio quando vuole far arrivare la mano proprio lì, come l’arco di Ulisse quando l’eroe di Itaca ha oltrepassato con la freccia le dodici scuri prima di dimostrare ai Proci di essere tornato per compiere la mattanza.

Per tendere distendiamo un oggetto tirandolo, stendiamo, protendiamo appunto e ci protendiamo. Il verbo tendere va in coppia con tenere ed entrambi risalgono a un’antica radice indoeuropea *ten, dalla quale in italiano si sono originate anche le parole tenue e tenero, tenda, tendine e tenzone. Da quella radice unica utilizzata nelle lingue parlate dall’Atlantico al Gange, tendere e tenere hanno specializzato il loro significato: tendere ha assunto il significato nella dimensione spaziale, mentre tenere ha un valore continuativo nella dimensione temporale.

Quando attendiamo, ad-tendiamo, tendiamo noi stessi verso un luogo diverso da qui, il luogo dei sogni e delle speranze.

Lo sguardo dell’aspettare

Un sinonimo di attendere è aspettare, anche se tu sai bene che i sinonimi non esistono perché ciascuna parola porta con sé il bagaglio della propria storia, il peso dell’uso effettuato dai parlanti negli anni, le sfumature che diventano solida materia.

Se nell’attendere rinvieni la tensione, nell’aspettare ritrovi lo sguardo. Aspettare deriva dal latino classico exspectāre, che voleva dire ‘aspettare’ e ‘aspettarsi’ ma non basta: quando separi la particella ex-, sostituita da ad- in italiano, hai per le mani il verbo spectāre, che voleva dire guardare. Nella nostra lingua quello spectāre ha dato origine allo specchio, la superficie levigata che riflette l’immagine, ma anche all’aspetto (anche qui con la particella ad-) che ha a che fare con il modo di presentarsi, con la fisionomia, con ciò che appare allo sguardo altrui.

Quando aspetti qualcosa o qualcuno, guardi con intensità ad-, osservi l’orizzonte cercando di cogliere il senso del tutto e del particolare, guardi l’orologio contando i minuti perché arrivi l’atteso, cerchi di capire ciò che sarà scrutando i segni, come facevano gli aruspici quando predicevano il futuro esaminando le traiettorie degli uccelli nel cielo.

Il colore dell’aspettare è quindi sempre il colore dei tuoi occhi.

La tregua dell’indugiare

Nell’attendere si palesano due possibili atteggiamenti, quello del tenersi pronti e quello del fermarsi e rinviare: sta a te scegliere in che modo preferisci aspettare.

L’attesa può contenere una preparazione, gesti di veglia, atteggiamenti di vigilanza. Estote parati, siate pronti, è il monito evangelico (Matteo, 24, 44): “Se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti”. Ecco, questo è un modo di attendere che lord Baden Powell ha scelto come motto degli scout.

Attendere però può voler dire anche rimandare nel tempo, stare fermi, indugiare. Quest’ultimo verbo, indugiare, è una formazione romanza di origine latina: deriva da indūtĭae, sostantivo femminile plurale che significava ‘tregua’, ‘riposo’ ed era usato nelle conversazioni dei militari.

Stare acquartierati in un accampamento, quand’anche fosse l’accampamento del nostro comfort, dello status quo, dell’accontentarsi, è una forma di attesa intrisa di indugi. Il tempo passa e tu rinvii, rimandi, sposti la scadenza ultima sempre più in là. Sia questa la scadenza della battaglia dell’esercito, sia questa la scadenza della tua prossima sfida.

Gli occhi del to wait for a Londra

In inglese attendere, aspettare si dice to wait for, verbo che merita di essere indagato per bene. Questo phrasal verb, verbo fraseologico, è composto di wait + la preposizione for. To wait vuol dire aspettare, in origine stava per ‘guardare con un intento ostile’, ‘stare in attesa di’, ‘tramare contro’ e ha la stessa radice di parole presenti in altre lingue: gaitier in francese antico significava ‘difendere’, ‘stare in guardia’, wahten in antico tedesco voleva dire ‘osservare’, wacian in inglese antico stava per ‘essere vigili’. Anche il verbo guardare ha la stessa origine, dal germanico wardōn, ‘osservare’, ‘sorvegliare’.

Anche qui, come in aspettare, ad- + spectāre, troviamo un legame etimologico forte tra il to wait e il to watch, tra l’attendere e il guardare.

Anche qui lo sguardo è parte essenziale dell’attesa.

Parenti di to wait e di to watch sono la vedetta e il vigile, la sorveglianza e la veglia.

Anche qui gli occhi sono protagonisti e diventano gli strumenti per osservare il mondo e cercare di comprenderlo almeno un po’, attraverso le parole con le quali cerchiamo di rappresentarlo.