Il mondo è troppo piccolo per contenere un uomo. Per questo esiste l’arte.

Nel paesaggio preistorico di un’umanità primordiale, il genio di Jack London, scrittore appassionato di teorie evoluzioniste, ambienta l’emblematica storia del Primo poeta. Mentre Uk, capo di una tribù di uomini impegnati nella lotta per la sopravvivenza, non può che tramandare ai figli Ok e Un le buone pratiche della caccia all’orso e al cervo, l’uomo Oan, in modo assai anomalo e contrario a qualunque tradizione, intona un canto in cui improbabili stelle gli “sussurrano” che il giorno tornerà. Lo sconcerto di Uk e degli uomini della tribù è assoluto: le stelle non hanno mai sussurrato alcunché né, se lo facessero, la loro azione sarebbe ben accolta, a meno che esse non fossero in grado di risultare utili alla caccia. Le stelle per caso sussurrano ad Oan come si arriva alla tana dell’orso? No. La sentenza della tribù è definitiva: Oan è pazzo.

La storia, però, se si concludesse con il semplice isolamento del primo uomo che, destrutturando la sintassi, ha sconvolto l’equilibrio del suo gruppo sociale, non avrebbe, come invece ha, il suo senso compiuto: Oan non è solo pazzo, Oan deve essere ucciso. È così che, nella ricostruzione fantastica di London, si consuma l’assassinio del primo poeta che invece di intonare versi affinché la tribù possa mangiare e l’orso essere mangiato, ha sacrilegamente distolto l’attenzione della gente dalla necessità di sopravvivere.

La legge cui London sottomette la triste sorte del poeta è quella che è stata ben descritta, com’è noto, da Charles Darwin fin dal 1859, anno della prima delle sei edizioni dell’Origine delle specie, laddove lo scienziato naturalista teorizza l’evoluzione a partire da almeno due elementi fondamentali: l’istinto congenito in tutte le specie a conservarsi e la lotta per ottenere le risorse che permettano la conservazione stessa. L’animale più idoneo alla lotta vincerà sul meno idoneo e si conserverà. Chi in questa catena di specie in competizione si appresterà a mangiare la preda sarà destinato a sua volta ad essere mangiato da un esemplare più prestante di lui, a divenire cioè anch’esso preda.

Eppure, lo stesso Darwin, dall’alto della complessità della sua opera troppo spesso ingessata dai commentatori in soluzioni cristallizzate e univoche, offre al lettore tutte le perplessità di chi, oltre alla cruenta legge di conservazione, osserva il profondo senso di bellezza - sense of beauty - che la stessa natura suscita nelle specie animali e nell’uomo e che, secondo l’autore, attraverso il piacere generato dai suoi suoni, le sue forme e i suoi colori, costituisce ancora un “soggetto oscuro”. Quale senso dare infatti alla bellezza e alle pratiche ad essa connesse, cioè quelle artistiche, all’interno di una catena ferrea di azioni e reazioni che sembra unicamente accettare la conservazione dell’utile e del bello solo qualora esso divenga utile?

Le soluzioni post-darwiniane al dilemma della “inutilità” o “utilità” della bellezza sono state e sono ancora molte, vista l’effervescenza di un dibattito tutt’altro che chiuso.

Quello che, tuttavia, spesso non si indaga a sufficienza in rapporto all’evoluzionismo, proprio in quanto campo di indagine epistemicamente separato, sono le tradizioni religiose, da quelle più arcaiche a quelle più recenti come il Cristianesimo, che pare invece abbiano sia compreso che ritualizzato in modo perfetto l’idea evoluzionista della legge di natura e del grande “banchetto” - nella sua complessa declinazione di “sacrificio” - a cui la specie umana, insieme alle altre specie, pare sia stata invitata sul Pianeta che la ospita.

Non a caso il dramma dell’umanità dell’origine in seno al Giudaismo consiste nell’atto di mangiare un frutto proibito, né può considerarsi casuale nel libro biblico dell’Apocalisse, che questo medesimo dramma conclude, il riferimento all’atto di “mangiare” da parte del Creatore stesso.

Proprio un banchetto, nello specifico una cena, è lo sfondo di uno dei momenti culminanti della narrazione sacra cristiana che non conosce solo le quattro versioni dei vangeli canonici, ma conta di versioni apocrife come quella degli Atti di Giovanni di cui abbiamo già fatto menzione altrove.

Prima di venire arrestato, durante l’ultima cena, Cristo intona un inno che è visibilmente scandito in più parti. Egli ha preventivamente fatto posizionare gli apostoli in un cerchio al cui centro, non a caso, ha messo se stesso. Dopo un’articolata e commossa invocazione al Padre, allo Spirito, alla Grazia e alla Parola, la prima parte del testo in traduzione dal greco suona più o meno così: “Io sarò salvato e salverò … Io sarò ferito e ferirò… Io sarò generato e genererò… Io mangerò e sarò mangiato”. A questo punto una variazione sintattica introdotta da una cháris che prende a danzare permette di invertire il procedere dell’azione e il testo prosegue: “Io suonerò, voi tutti danzate. Io intonerò un lamento, voi tutti piangete”.

Parte dell’inno citato, per lo più noto come Caròla della croce, viene inserito con una indicativa rielaborazione lessicale da Marguerite Yourcenar nella sua Opera al nero in cui è presentato come un motivetto antico ed enigmatico, tratto dal Cantico di San Giovanni e ripetuto, a detta dell’autrice, dagli ermetici per i suoi poteri nascosti. “Chiamo e sono chiamato / Bevo e sono bevuto / Mangio e sono mangiato / Danzo, e ciascuno canta / Canto ed ognuno danza…” recita ad un certo punto frate Cipriano.

Come ci insegna il Medioevo, anche la grammatica possiede articolazioni come quelle di un “corpo” fisico e, non a caso, nella cosmologia antica era stata associata alla Luna: come quest’ultima essa ha infatti sempre una parte “oscura” destinata a rimanere latente quando la si voglia analizzare. Nell’Inno di Giovanni, allora, Cristo rende grazie ad un tipo certamente eccezionale di Parola che, vista la polivalenza del termine greco lògos, non può che essere intesa anche come Azione.

Senza addentrarci troppo nelle questioni della linguistica antica, ciò che è abbastanza evidente nella divisione del discorso è che se nella frase c’è un agente che “agisce”, con buona probabilità ci sarà un paziente che “patisce” l’azione innescata dall’agente. Spesso, però, sarà l’agente stesso a patire: il subiectum o soggetto, etimologicamente, non è che il “sottomesso”. Soggetto e oggetto, ormai neutri descrittori senza più “dramma”, occultano oggi alla nostra mente iper-analitica la più gentile “mattanza” che, come nella natura e nella storia, si cela anche nei rapporti normativi del linguaggio verbale.

Se osserviamo bene, e con molte semplificazioni, nella prima parte dell’inno degli Acta Joannis - la cui interpretazione rimane ardua e bisognosa di lunghe pagine di esegesi - sembrerebbe palesarsi un corollario di azioni susseguenti in cui l’agire reclama la necessità “dell’essere agito” (e viceversa) all’interno di una catena inesorabile. Come in una primitiva savana, insomma, “io mangerò e sarò mangiato”. Questa descrizione si addice bene al corso orizzontale della storia, all’ineluttabile che i Greci chiamavano necessità o anánkē e che nei vangeli canonici è ben espresso da quello che per noi oggi è sbrigativamente solo un motto: “Chi di spada ferisce di spada perisce” (cfr. Mt, 26, 51-52).

A questa narrazione “lineare”, che abbiamo voluto di proposito leggere darwinianamente “alla lettera”, segue però un cambio di ritmo, cui consegue un cambio di sintassi. Subentra cioè un evento “verticale” che, come in tutte le domande intime che dal basso cercano un’altezza (non è un caso che il titolo dell’inno faccia riferimento alla Croce), spinge a deviare dalla norma, inverte la sintassi e dal livello della parola detta porta alla parola “oscura”. La seconda parte dell’inno pare infatti sospendere la “mattanza” delle azioni e reazioni: non più subire per poi agire a propria volta, non più essere carnefice per attendere di essere vittima, ma immergersi in un movimento che disinnesca la condanna del soggetto ad essere “sottomesso” ad un’azione che tende infine a dissiparlo.

Qui comincia l’Arte. Il senso di bellezza, come lo chiamerebbe l’evoluzionismo, che nel canto apocrifo celebra un’azione che non chiede più contropartita, non vuole nulla in cambio, ma si compie con una Naturalezza che si è messa al di sopra del naturale: “Io canto, voi tutti danzate”.

Dopo l’inversione sintattica, il dettato dell’inno presenta infatti non più la successione temporale di chi dopo aver agito attende di patire, ma introduce le regole del paradosso tipiche della poesia: “Io fuggirò e resterò… Io possiedo case e non ho casa… Io possiedo templi e non ho tempio…”. In questa contemporaneità di azioni che non si susseguono temporalmente ma coesistono paradossalmente, il movimento delle parti sconfigge il tempo e lo spazio e con essi le offese delle “reazioni” del mondo orizzontale. Dove finisce il Tempo comincia l’Arte.

Nelle ultime battute dell’inno sarà lo stesso Cristo ad affermare: “Ho riso di tutto con la parola e non sono stato deriso in niente”. Il Bello, ci sembra suggerire, è un frutto che non si offre per essere “consumato”.

Nelle declinazioni ermetiche interne al Cristianesimo medievale l’alchimia verrà definita “arte regia”: l’arte del Sole e della Luna, della sapienza che armonizza l’indicibile con la sua manifestazione. Non a caso il suo centro speculativo sarà un lapis, una pietra, con cui, tra l’altro verrà identificato lo stesso Cristo. Simili pietre, frutto di una lunga evoluzione interiore destinata a cambiare la materia, erano il simbolo di ciò che pur offrendosi “in pasto” ai fedeli non può mai essere dissipato, poiché la sua natura consiste di una perpetua moltiplicazione.

Anche il Cristo che intona l’inno degli Atti di Giovanni, come il primo poeta di London, verrà infine sacrificato sul mattatoio del potere naturale e sociale. Nei secoli l’ultima cena verrà replicata nel noto sacramento, seppur deprivata dell’estasi dell’artista che negli apocrifi accompagna il commiato dagli apostoli.

A ricordo dell’evento eccezionale continua ancora oggi il significativo invito a “mangiare” l’Uomo che ha sfidato il potere. Questo, volendo preservare la specie, ha voluto eliminare l’individuo. Solo che l’Individuo è al di fuori del tempo e dello spazio. È lì dove c’è l’Arte.