Spesso, per divertirsi, uomini d’equipaggio
catturano degli albatri, vasti uccelli dei mari,
che seguono, compagni indolenti di viaggio,
il solco della nave sopra gli abissi amari.
Li hanno appena posati sopra i legni dei ponti,
ed ecco quei sovrani dell’azzurro, impacciati,
le bianche e grandi ali ora penosamente
come fossero remi strascinare affannati.

L’alato viaggiatore com’è maldestro e fiacco,
lui prima così bello com’è ridicolo ora!
C’è uno che gli afferra con una pipa il becco,
c’è un altro che mima lo storpio che non vola.

Al principe dei nembi il Poeta somiglia.
Abita la tempesta e dell’arciere ride,
esule sulla terra, in mezzo a ostili grida,
con l’ali da gigante nel cammino s’impiglia.

Questa traduzione di Antonio Prete del famoso componimento di Charles Baudelaire L’albatro, contenuta nella seconda edizione (1861) della raccolta I fiori del male (la prima risale al 1857), seppure non capace, come ogni traduzione che ha intrinseco il senso del ‘tradimento’, di riportare fedelmente le assonanze e le consonanze, le allitterazioni o i giochi di parole presenti nella versione in francese, è lo stesso vicina a questa e ne sa cogliere comunque il cuore concettuale.

Questa poesia è simbolo della condizione del poeta nella seconda metà dell'Ottocento, epoca di cambiamenti frenetici, come la seconda rivoluzione industriale, lo sviluppo tecnologico ed economico e la nascita della società di massa. Baudelaire, precursore del Decadentismo, paragona la nuova condizione del poeta, prima "sovrano dell'azzurro", esempio da seguire e maestro da ammirare, a quella dell'albatro, goffo volatile dall'andatura storta, deriso dagli sciocchi marinai; da coloro che non sanno cosa sia la poesia, che non ne conoscono il valore eterno e taumaturgico. Guarisce da ogni storpiatura l'albatro in volo, e si innalza fiero, e ride degli arcieri e danza con l'uragano, così come il Poeta quando scrive.

Come un Sileno, che dietro alla bruttezza esteriore conserva il divino cuore, così il Poeta spiega le sue ali maestose solo per chi ha la sensibilità di apprezzarne la poesia. Adesso che gli è caduta l'aureola, non gli resta altro che cantare la modernità, ferita, sporca, veloce e indifferente, per cogliere, anche in essa, la ribellione, la bellezza, la "foresta di simboli"1.

L'albatro, inoltre, non può non ricordare La ballata del vecchio marinaio (1798) pubblicata nelle Lyrical Ballads di Wordsworth e Coleridge, che racconta della maledizione caduta sull'equipaggio di una nave dopo che un suo marinaio ebbe ingiustamente ucciso un albatro, rappresentante il biblico messaggero di Dio, annunciatore della conciliazione tra gli uomini e la natura o, anche, la Natura stessa, tutta unita in un unico afflato divino. Questo gesto efferato e insensato ha significato una colpa gravissima, una rottura tragica dell’armonia naturale, alla pari di quella avvenuta nell’Eden in seguito al peccato originale. N'è conseguito un percorso interiore di redenzione del personaggio che, dopo una serie di incontri con creature sovrannaturali e un profondo senso di pentimento che gli valsero l’espiazione, abbracciò il compito di girovagare per il mondo narrando la propria storia agli uomini per insegnare loro ad amare e rispettare tutte le creature di Dio.

A differenza di quanto descritto nell’opera di Coleridge, però, in Baudelaire l’albatro non viene ucciso una volta sola, ma ripetutamente umiliato: in questo modo, la sua caduta non è più un caso isolato e negativo, ma la quotidiana routine degradata del poeta nella società capitalistica e industriale, in cui questi ha perduto per sempre la sua aura sacrale ed è diventato, più che tragico come nella ballata inglese, addirittura grottesco. Inoltre, nel componimento inglese, il marinaio potrebbe indicare l'artista stesso che, attraverso esperienze dolorose e straordinarie, foriere di conoscenza, si prepara a conoscere il suo scopo nella vita: quello di narrare al mondo la sua storia.

Non è un caso che quest'opera, manifesto del Romanticismo inglese, sia così vicina a quella di Baudelaire, anticipatore del Decadentismo: questa seconda corrente letteraria, infatti, trae origine in parte dal filone Simbolista, onirico e mistico, della prima.

Tornando a L’albatros, però, facente parte della sezione Spleen et Idéal della raccolta, scritta in quartine di versi alessandrini con rime alternate, vediamo che nelle prime tre strofe si narra della caduta del poeta dalla condizione elitaria e privilegiata di professore e guida intellettuale, dovuta al cambiamento della società, ormai massificata e meccanizzata, in cui ognuno è un numero, utile alla macchina produttiva, ma mai insostituibile. Allo stesso modo in cui, sminuito e buffo, è l'albatro catturato dai marinai, anche il poeta, in mezzo alla gente, è oggetto di scherno. Nell’ultima strofa, attraverso la figura retorica della similitudine, si chiarifica al meglio il paragone tra i due personaggi: il termine ‘esule’, parola chiave dell’intero componimento, esprime perfettamente la condizione di emarginato e declassato a cui può ascriversi ormai la figura del letterato.

Dal punto di vista stilistico e linguistico, invece, vediamo che aleggia la dissonanza, espressa attraverso la continua antitesi di termini come “sovrani dell’azzurro”, “vasti uccelli dei mari”, “principe dei nembi” e “impacciati”, “fiacco”, “maldestro”, indicando la presenza simultanea di elevazione e degradazione, di stile sublime ed elevato e stile comico; poetico e prosaico. Il linguaggio quasi discorsivo è, infatti, accompagnato spesso da immagini poetiche e oniriche, mentre la simmetria e la melodia generate nella metrica sono in netto contrasto con questa disarmonia stilistica.

La stessa tematica è affrontata dall’autore anche in un altro testo: Perdita dell’aureola, poemetto allegorico in prosa compreso nella raccolta Lo Spleen di Parigi (1869). In esso Baudelaire ci racconta di aver perduto nel fango di un boulevard della capitale francese la sua aureola, anticamente la corona del poeta laureato: non è un caso l’ambientazione frenetica della vita cittadina, culla dell’emergente società di massa, lobotomizzata dalla catena di montaggio delle industrie e stordita dall’incalzante consumismo alimentato dal sistema produttivo. Baudelaire, in seguito, ci racconta di essersi recato in un bordello, dove ha incontrato un amico che si è molto sorpreso di averlo trovato lì, proprio lui, “Il bevitor di quintessenza”, adesso ridotto alla condizione degradata di essere mortale: non è casuale nemmeno la scelta di questa seconda ambientazione, per via dell’associazione mentale molto frequente in questo autore tra la figura del letterato e quella della prostituta; entrambe ormai costrette a vendere per denaro i loro prodotti, nel completo anonimato, in un mercato borghese in cui anche l’arte è considerata mera merce. Anche essa, dunque, ha perduto la sua aura.

Il topos del parallelismo tra poeta e prostituta si diffuse, dopo questo scritto, in tutta la letteratura e l’arte d’avanguardia, riconducendo anche al confronto fra artista e saltimbanco o artista e ballerina, per le stesse ragioni sopra esposte e per la necessità da parte di queste figure di dover sedurre e colpire il pubblico con tecniche artificiali e poco spontanee, solo per ricevere gli applausi degli spettatori. Fu così che l’artista di fine Ottocento cominciò a sentirsi sempre più vicino alle figure degli emarginati della società, degli invisibili, dei ‘diversi’, e per questo, ‘maledetto’, ricorrendo alla pratica della ribellione, del vagabondaggio, rifugiandosi nelle droghe e nell’alcol (oppio e assenzio, soprattutto) oppure anche nell’estetismo: è possibile, a tal proposito, ricordare Oscar Wilde, gli scapigliati italiani (i nostri bohémien) o, giungendo fino ai tempi moderni, Pier Paolo Pasolini.

In Europa e soprattutto in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, infatti, si percepiva intensamente la differenza rispetto all’epoca precedente risorgimentale e romantica, in cui si sentivano forti la funzione ideologica e il ruolo dominante dell’intellettuale. In Italia, la figura del poeta-vate, impegnato politicamente e socialmente, inteso come guida delle folle e depositario delle tradizioni popolari più antiche, dopo l’Unità subì una crisi: non fu un caso se nacquero poi i Veristi, gli “intellettuali-fotografi”, sullo stampo dei Naturalisti francesi, gli scrittori “scienziati” o “medici”, capaci di applicare un metodo scientifico nelle loro opere; proprio per questo, in un momento in cui l'identità del letterato stava perdendo terreno e aveva dunque maggior bisogno di approvazione, furono maggiormente riconosciuti dalla società.

Ritornando a Baudelaire, vediamo come in Perdita dell’aureola ci tenga a sottolineare che non ha più alcun senso tentare di recuperare la posizione perduta: per l’autore, infatti, questa omologazione del poeta alle masse è la modernità a cui si è costretti a guardare e solamente un “poetastro” ridicolo si cimenterebbe nel tentativo di recuperare l’aureola. In Italia, però, erano presenti anche molti altri autori della seconda metà del secolo che la pensavano diversamente: come risposta a questa condizione del letterato, infatti, alcuni, come Carducci, ripiegarono sul classicismo, sul senso educativo e umanistico della poesia, caratteristica fondante della nostra più antica tradizione culturale; altri si gettarono sull’esaltazione della capacità ‘veggente’ del letterato, immerso nel Simbolismo, nell’estetismo, nel misticismo o nel divismo (come D’Annunzio e Pascoli); tutte tendenze volte a sottolineare l’abilità artistica di rivelazione della verità per via intuitiva, o la condizione di superiorità e di prestigio dell’intellettuale rispetto alla massa.

A cosa, infine, potrebbe servire questo excursus storico-letterario sulla condizione dei poeti moderni, se non a far riflettere intellettuali e lettori dei nostri giorni? Se la società di massa, appena cominciata nella seconda metà del XIX secolo, è oggi giunta alla sua massima estensione e al suo pieno sviluppo, si potrebbe dunque definire definitivamente concluso il Decadentismo o, più semplicemente, la condizione di anonimato del poeta e la mercificazione della poesia? Ha il poeta nuovamente raccolto la sua aureola e riposto intorno alle sue opere l’aura ieratica?

La risposta potrebbe ancora essere nel fango del macadam delle sognanti strade parigine.

1 Cit. da Corrispondenze di Baudelaire.

Bibliografia

Charles Baudelaire, I fiori del male, Feltrinelli 2004.
Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi, Mondadori 2018.
S. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, Classici BUR Deluxe, Rizzoli 2019.
Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese, La scrittura e l’interpretazione, Ed. rossa, Vol. 3, Tomo I, Palumbo Editore, Firenze 2001.