Come l’universo è fatto di suoni, la mente umana è fatta di voci. Molte di queste giungono per assolvere e liberare; altre invece intervengono con l’invisibile scopo di ingannare. Ci vuole un’arte per “estrarre” dall’intricato groviglio in cui si trovano commiste ciò che è buono trattenere e ciò che invece bisogna lasciare andare.

Che cos’hanno in comune un corvo e una scrivania? Non è dato saperlo con certezza. Sappiamo però cos’hanno avuto in comune con ogni probabilità Sir Isaac Newton, lo scienziato dei Principia Mathematica, e i cappellai del tempo in cui Lewis Carroll scrive la sua Alice in Wonderland: la sindrome nota come mercurialismo o idrargiria.

Una costante esposizione al mercurio o idrargirio, il celebre metallo liquido dell’alchimia, arreca nell’uomo sintomi come lo stato di aumentata eccitabilità e irritabilità (affezione nota come eretismo), un diffuso tremore delle membra, stati d’ansia e allucinazioni. Tanto uomini di scienza, come il Newton impegnato nella ricerca alchemica, che artigiani come i cappellai evocati da Carroll nel suo “matto” personaggio, sono stati quindi esposti agli effetti nocivi delle costanti inalazioni del mercurio.

In particolare, i cappellai, per ottenere il loro materiale di base, dovevano preventivamente operare la cosiddetta carotatura del feltro immergendo le pelli animali nel nitrato di mercurio. L’operazione avrebbe dato vita al tipico colore arancione che spesso andava accidentalmente a colorare la chioma del cappellaio costretto a “testare” di persona le sagome dei suoi artefatti. Non a caso, dunque, il Cappellaio di Carroll, nella rivisitazione del regista Tim Burton, esibisce con la sua iconica capigliatura proprio i segni di questo processo.

Quando Carroll scrive Alice in Wonderland, il suo personaggio può, alla luce di quanto detto, chiamarsi solo The Hatter, il Cappellaio, che è “matto” per antonomasia, come nel proverbio inglese: Mad as a hatter. Ma l’intenzione del grande scrittore nel creare il suo eccentrico personaggio non era certamente solo quella cronachistica. Il cappellaio ha una storia. Una storia breve ma assai densa di attributi simbolici che rendono la sua lettura assai problematica e complessa.

Alla tavola che il Cappellaio condivide con una Lepre marzolina ed un Ghiro, tutto è predisposto nella migliore tradizione inglese per l’ora del tè. Solo che l’ora del tè di questa mensa è “sempre” e ciò che è sempre finisce con l’essere mai. L’orologio del Cappellaio non conta infatti le ore, conta solo i giorni. La lancetta delle ore si è fermata sulle sei del pomeriggio e invoca perciò tazze, teiere e pasticcini in una sorta di anti-presente quale è quella che gli è ammattita in sorte. La domanda più importante: è sempre stato così? No.

Quando Alice arriva alla sua tavola, il Cappellaio lamenta che il suo orologio va indietro di due giorni. Non è servito a niente spalmare dell’ottimo burro nei suoi ingranaggi: non solo l’ora è immobile sulle sei, anche i giorni fanno fatica ad andare avanti.

Eppure, racconta il Cappellaio ad Alice, c’erano stati giorni in cui egli sapeva parlare con il Tempo e poteva addirittura ordinargli di muoversi come a lui piaceva. Poteva ad esempio farlo balzare in avanti con il sussurro di una semplice parola (to whisper a hint to Time…). Cos’è successo dopo? È lo stesso Cappellaio a raccontarlo. Tutto è avvenuto in marzo, al concerto di gala della Regina di Cuori al quale era stato invitato non per confezionare cappelli, ma per cantare.

Non appena aveva cominciato la sua esibizione intonando il primo verso (Twinkle twinkle little bat - Brilla, brilla, pipistrellino), il Cappellaio era stato però bruscamente interrotto dalla Regina che, prima di ordinare che gli venisse tagliata la testa, lo aveva zittito con un’accusa ben precisa: “Sta ammazzando il tempo!”.

Da allora, riferisce mestamente il Cappellaio, il Tempo non è più suo amico, non lo ascolta più. Si è fermato per sempre sull’ora del tè. Da allora, alla tavola del Cappellaio sono talmente le sei del pomeriggio che non c’è spazio (o tempo) per essere le diciassette e cinquantanove o le diciotto e zero uno. Non c’è tempo insomma neanche per lavare le stoviglie tra un tè e l’altro. In questa mensa sospesa nella propria surrealtà non resta che dar spazio a racconti e indovinelli, così, tanto per “ammazzare il tempo”, trasformando fatalmente l’accusa della Regina di Cuori in un pervicace incantesimo: il sempre è mai.

Con indolente impazienza, dunque, la Lepre, dopo aver chiesto invano ad Alice di intrattenerli con una storia, è lei stessa a narrare forse uno tra i più bizzarri aneddoti di Wonderland. Tre sorelline molto malate vivevano dentro un pozzo di melassa e vivevano lì dentro per estrarre (to draw) tutte cose che cominciano con la M e che in lingua inglese sono la trappola per topi, la luna, la memoria e quella che in lingua italiana potrebbe essere tradotta come la “moltezza” (muchness).

Ora, non ci preoccuperebbe affatto se il Cappellaio, viste le contingenze, avesse, com’è evidente, solo “perso la testa”. Il “perdere la testa”, nel senso letterale di decapitazione, è stata infatti una costante locuzione figurale che nei testi della tradizione ermetica ha indicato un preciso modo di operare sulla materia fisica e mentale, in relazione alla prima e più dolorosa parte dell’opera. “Perdere la testa” equivaleva al lungo e faticoso processo messo in atto per lasciar andare le azioni superflue, i pensieri inessenziali, le voci meccaniche che abitano la mente, per poter dare finalmente spazio al sentire intuitivo e viscerale dell’artefice. Sul piano delle operazioni fisiche, spesso, questa fase era contraddistinta proprio dalla nera figura di un corvo (raven).

Nell’Alice di Tim Burton, allora, il Cappellaio, che lavora “come un pazzo” per la spietata Regina Rossa, lamenta non a caso di avere la testa confusa. La sua mente è infatti affollata e lo è, secondo noi, soprattutto per un motivo: il cappellaio non ha, o non sa di avere, un cappello.

Nel testo di Carroll, infatti, dopo la scena dell’ora del tè incontriamo il Cappellaio una seconda volta. Di nuovo al cospetto della Regina di Cuori, egli stavolta deve testimoniare riguardo al furto di alcune paste. Nella stravolta e illogica surrealtà che contraddistingue lo strampalato processo, il Re, che ora compare accanto alla Regina, chiede al Cappellaio di togliersi il cappello. Il Cappellaio però si schermisce: lui non ha un cappello che sia suo, lui fa cappelli per gli altri.

La parola latina che ha dato come esito l’italiano cappello è il neutro capitellum, diminutivo di -caput, traducibile come la “piccola testa” e ampiamente usato in ambito architettonico come parte culminante della colonna. A sua volta, un medesimo capitellum, e quindi un cappello, ha popolato per secoli il variato lessico dei testi di alchimia metallurgica e distillatoria in qualità di parte superiore dell’alambicco o del forno di distillazione atto a permettere la separazione o “estrazione” di alcune sostanze dalle altre.

Tra queste operazioni celebre era l’ottenimento del mercurio che, una volta separato dal minerale di partenza, il rosso cinabro, si sarebbe depositato in forma di gocce d’argento proprio grazie al cappello. Dopo essere stato liberato dallo zolfo presente nel cinabro, il mercurio avrebbe quindi mostrato tutta la sua apparenza “lucida” come quella di uno specchio, un’apparenza quindi tutt’altro che “matta”, cioè, in senso tecnico, “opaca”. Ricordiamo infatti che è detto “oro matto” la lega di metalli che diffonde sì la luce, ma per la sua opacità non la riflette.

Com’è noto agli studiosi dei testi alchemici che abbiano seguito la lezione junghiana, gli antichi per millenni hanno appreso e tramandato in codice la chiave per convertire il grande serbatoio delle operazioni naturali e artificiali, relative sia a piante che a metalli, in una rete strutturata di processi mentali ad essi analoghi.

Una celebre cantilena medievale riportata nel Testamentum attribuito a Raimondo Lullo ricordava perciò a colui che si apprestasse ad operare nel laboratorio della propria mente di “portare il cappello” per potere passare per la “porta stretta”, un invito solo apparentemente paradossale a coltivare l’arte di estrarre dal groviglio delle percezioni umane il sentimento sottile da quello pesante, l’immagine vera da quella falsa, la voce buona da quella ingannevole.

Il Cappellaio di Carroll, quindi, “matto” nel suo tempo immobile per aver creduto alla voce della Regina che gli ha intimato di fermarsi, cerca ora, per il tramite della proiezione di tre enigmatiche sorelle, di estrarre dalla sua mente tutto quello che comincia con la M. La memoria, la luna, la “moltezza”. Cose che solo la calma superficie di una mente specchiante riesce a riflettere. Ma perché il suo sforzo sia ricompensato è necessario che egli sia generoso anche verso sé stesso. Dopo aver “perduto la testa” deve ora costruirsi un “cappello”.

In tal modo riuscirebbe a spezzare l’incantesimo che in un giorno di marzo la voce pesante della Regina Rossa ha scagliato contro il suo cuore leggero. In tal modo smetterebbe di credere all’autorità ingannevole che ha dannato il suo canto come colpa perenne. La mente troppo spesso “mente”.