Quando Pëtr Dem'janovič Ouspensky incontrò Georges Ivanovič Gurdjieff nella prima metà degli anni ‘10 del Novecento ne ebbe un’impressione contraddittoria. Ouspensky, filosofo russo, aveva letto un trafiletto in un quotidiano che riferiva di questo personaggio di origine greco-armena che avrebbe tenuto una serie di conferenze tra Mosca e San Pietroburgo. Il filoso russo noto per i suoi studi sulla quarta dimensione collaborava a quel tempo con alcuni quotidiani russi e, nella sua lunga e nomadica ricerca spirituale, aveva conosciuto guru indiani, sciamani e fachiri, senza però trovare risposta ai tanti interrogativi che animavano la sua sete di conoscenza1.

Ne parla ampiamente nel suo testo Frammenti di un insegnamento sconosciuto, in cui racconta la sua esperienza con il mistico armeno. E proprio tra il 1914-1915 che Ouspensky si imbatte in Gurdjieff che stava cercando di finanziare le sue ricerche attraverso la costituzione di gruppi di allievi, selezionati non solo per capacità economiche, ma anche per autentico interesse in ciò che il maestro definiva il “lavoro”. Secondo Gurdjieff “l’illuminazione” si poteva conseguire attraverso tre vie: quella del fachiro, del monaco e dello yogi, rispettivamente del corpo, della fede e dell’intelletto. Ma tutte queste strade implicavano enormi rinunce, estremi sacrifici e una mancanza di integrazione tra i tre livelli di risveglio della coscienza. Ecco perché il mistico proponeva una “quarta via”, un percorso che poteva consentire all’uomo di non rinunciare completamente alla propria vita, al proprio quotidiano, ma di poter conseguire con il giusto impegno e “lavoro” quella consapevolezza che, a detta di Gurdjieff, nessun essere umano possiede.

Secondo il filosofo armeno ogni uomo non è altro che una macchina che reagisce a impulsi esterni senza esserne completamente cosciente, ma altresì vivendo un perenne stato di sonno che gli impedisce di essere presente a se stesso, facendogli così vivere una vita irreale. È straordinario e rivelatore uno dei passi in cui Ouspensky, dopo essersi recato a una delle riunioni col maestro Gurdjieff, sperimenti come l’essere umano sia, di fatto, costantemente addormentato. Il filosofo ebbe una sorta di visione lucida; mentre passeggiava per le strade di San Pietroburgo vide, con grande sgomento, le persone camminare con gli occhi chiusi come sonnambuli. Osservò cocchieri addormentati, autisti che guidavano dormendo e passanti che conversavano ad occhi chiusi, come immersi in un sogno. Una visione che lo sconvolse profondamente, del resto Gurdjieff tra gli esercizi che proponeva al suo ristretto e selezionato gruppo di allievi, c’era quello di “ricordare sempre chi si era” in qualsiasi momento del giorno. Esercizio alquanto difficile perché normalmente si è abituati a compiere qualsiasi azione quasi meccanicamente. Proprio per abituare i suoi studenti a compiere questi atti di consapevolezza estrema, Gurdjieff aveva ideato anche degli stop improvvisi in cui si doveva interrompere qualsiasi cosa si stesse facendo per “ricordare” e “tornare presenti”.

Affascinante anche in Gurdjieff è la famosa “legge del sette o dell’ottava” con cui il maestro spiegava l’evoluzione e il processo in cui avviene la vita o comunque l’andamento di progetti e intenzioni umane. Una teoria sicuramente suggestiva. Il filosofo-mistico partiva dal presupposto che la vibrazione del suono potesse imprimere un cambiamento e ragionava quindi a partire dalla scala diatonica di do.