Interessante rileggere le Eumenidi di Eschilo per farsi qualche domanda sulla reale essenza del diritto. Che cos’è davvero il diritto? A che cosa serve? Com’è noto, le Eumenidi introducono per la prima volta il principio “in dubbio pro reo” in base al quale quando non è possibile stabilire con certezza la colpevolezza dell’accusato costui viene assolto, ma questo principio da che cosa assolve esattamente?

Le Eumenidi sono l’ultima parte di una trilogia nota come “Orestiade” e composta dall’Agamennone, Le Coefore e le Eumenidi. La storia è dominata in tutto e per tutto dalla “legge del taglione”, dalla vendetta. Prima di partire per Troia Agamennone (come racconterà Euripide nell’Efigenia in Aulide) offre in sacrificio ad Artemide Ifigenia, figlia sua e di Clitennestra. Così, nell’Agamennone di Eschilo Clitennestra fa secco Agamennone di ritorno da Troia (reo anche di averla costantemente maltrattata nel corso del matrimonio e aver agito su di lei di ogni sopruso e di averle ucciso oltre a Ifigenia anche il marito Tantalo). Si fa aiutare nell’impresa da Egisto, il quale vuole anch’egli vendicarsi di Agamennone, perché Atreo (padre per l’appunto dei due celebri Atridi della Guerra di Troia, Agamennone e Menelao) lo aveva strappato al padre Tieste generando ogni genere di stortura nella sua vita.

D’altra parte, se Egisto è l’amante di Clitennestra (i due fecero sul serio, mettendo al mondo tre figli), anche Agamennone non si fa cogliere impreparato, ripresentandosi dalla moglie regina con un’amante: Cassandra, uccisa anch’ella da Egisto e Clitennestra. Agamennone paga il fio con la vita per le sue colpe. Nelle Coefore per vendicare la morte del padre Oreste, figlio di Agamennone, fa fuori sia Egisto che la madre Clitennestra. Poiché Oreste ha compiuto un matricidio, le Erinni (dee che si preoccupano di vendicare chi colpisce a tradimento famiglia e parenti) gli danno la caccia. Questa parte è raccontata nelle Eumenidi. Qui per sfuggire alla vendetta delle Erinni, Oreste chiede aiuto ad Apollo. Si istituisce un tribunale (l’Areopago) dove a decidere è Atena, la quale infine assolve Oreste.

Come fa Oreste a difendersi nell’Areopago? Adduce di aver lavato via il sangue del matricidio sacrificando sull’ara domestica di Febo un verro. Ovviamente, ciò per le Erinni non è sufficiente. Né è sufficiente la difesa che di Oreste fa Apollo dinnanzi ad Atena. A parer delle Erinni, stando alle parole di Apollo, Zeus avrebbe più a cuore le sorti dei padri che delle madri, dimenticando, Apollo, che egli stesso aveva incatenato suo padre Crono. Apollo si difende allora affermando comunque la superiorità dei padri rispetto alle madri, essendo queste nutrici del feto e non generatrici. Alla fine, ascoltate le parti, Atena così si pronuncia: “Io voto in favore di Oreste. Madre che mi abbia generata io non l’ho. Il mio cuore, esclusi i legami di nozze, è tutto per l’uomo. Io sono solamente del padre. E così il destino di una donna omicida del proprio sposo a me non importa: lo sposo m’importa, custode del focolare domestico. La vittoria sarà di Oreste anche se uguale il numero dei voti”. Per riparare il torto fatto alle Erinni uscite sconfitte dalla contesa (esce infatti un numero di voti pari, il che scagiona Oreste), Atena dona la sua città alle Erinni, che alla fine accettano di buon grado, trasformandosi nelle “Benevole”, le Eumenidi appunto.

Naturalmente, nulla di più distante dalle nostre concezioni sia dal punto di vista della coscienza collettiva laica che di quello di donne e uomini la cui cultura è impastata (volenti o nolenti) di monoteismo. Tutti questi sacrifici di purificazione e questo caos di divinità, a cui rivolgersi, per ottenere protezione e delle quali temere la rivalsa. Piazza pulita di tutta questa roba è stata fatta da tempo: circa 2000 anni. Ma è il dispositivo narrativo, ancora una volta, a non mentire: a suggerire verità profonde. La trilogia eschilea s’incardina sul principio della vendetta: ma vendetta tra uomini. Quando sono gli dei a intervenire, ecco che le cose si complicano. Se nelle Coefore Oreste non avesse ucciso sia Clitennestra che Egisto, nella terza parte avremmo verosimilmente assistito alla vendetta di Egisto su Oreste. Invece, la catena di vendette si spezza nel momento in cui non c’è più nessun mortale che possa provare rancore. Come dire… Se devi prenderti la tua vendetta, prenditela bene, facendo una strage. Perché se ne lasci in vita anche uno solo implicato nella vicenda, quello ti cercherà e ti troverà e per te saranno guai. Questa è infatti la regola che muove il mondo narrativo del mito e della tragedia: una legge ineludibile che determina il destino di ogni personaggio. Battute a parte, è un fatto che nel momento in cui non ci sono più mortali coinvolti nella vicenda, la vendetta ha un termine: gli dei capiscono poco o nulla delle passioni umane, agiscono solo per questioni di onore, per proteggere, tutt’al più, i loro pupilli, si potrebbe dire.

Allora, se questa è la tragedia che sancisce la nascita del diritto tra gli uomini, dei tribunali contro la legge sanguinaria dell’occhio per occhio, dente per dente, del principio del diritto romano “in dubbio pro reo”, che lezione possiamo trarre da questa lettura che abbiamo appena fatto? Come conciliare la lettura appena svolta, la percezione appena avuta con ciò che già sappiamo? A cosa serve il diritto? Serve davvero, al di là di ogni retorica, a riparare un torto subito? Serve davvero a “dare soddisfazione” a chi muove le accuse? Per cosa viene punito, il colpevole? Viene punito per ciò che ha fatto o viene punito per la “pericolosità sociale”? Nell’Eumenidi Atena ha un atteggiamento ai nostri occhi un po’ menefreghista: sì, Oreste ha accoppato la madre, ma quel che è fatto è fatto, ha avuto la sua vendetta, e adesso si è calmato. Non andrà più in giro ad ammazzare, perché non ne ha motivo.

Per gli antichi la furia omicida ha limiti e contorni precisi: se togli la vita a qualcuno per un motivo, non è assolutamente detto che tu possa farlo di nuovo solo perché ti gira. Per noi la faccenda è molto più complessa. Ma proviamo a vedere la questione in questo modo: se è la vendetta a regolare i rapporti drammatici nelle vicende delle tragedie greche (e nel mito greco), e se l’Areopago assolve Oreste, allora significa che l’Areopago nulla ha da vendicare (così come le Erinni, che fanno tanto chiasso, ma nulla di strettamente personale hanno subito da Oreste: agiscono solo in rappresentanza di Clitennestra e di tutte le madri uccise dai figli) e dunque, se l’Areopago è assurto a modello embrionale di primo tribunale tra uomini, possiamo ricavarne che i tribunali e il diritto non agiscono in nome della vendetta del singolo, ma per un’idea di giustizia che riguardi la collettività. Da questa idea primordiale di diritto, questa radice lontana, si potrebbe spiegare come mai ancora oggi i “congrui risarcimenti” non siano quasi mai realmente congrui e qualche sentenza non dia mai piena soddisfazione alla parte che si ritiene offesa. Al diritto non sta cuore la soddisfazione dell’offeso, ma di ristabilire un ordine in un’idea più ampia di giustizia. È in errore, pertanto, chi si rivolge a un tribunale con l’idea di ottenere una vendetta: i tribunali non sono gli esecutori dei desideri della parte che si ritiene lesa né dei desideri di nessun altro.

Ma quest’idea (l’idea più ampia di giustizia; la dike greca) che cos’altro è se non un’altra narrazione regolata dalle norme più convenzionali di ciò che modernamente definiamo storytelling? Una donna che compia un delitto efferato è passibile della pena capitale, perché quell’immagine ci ripugna… così come ripugnava duemila e cinquecento anni fa la donna che commetteva adulterio al punto da meritare la morte, cosa che oggi invece siamo collettivamente portati a tollerare (anzi, ci fa sorridere: rappresenta il soggetto ideale per una commedia sexy all’italiana) e chi subisca questo sfregio, be’, un pochetto se la deve far passare. Non esistono per un terzo al di sopra delle parti, reali motivi di estrema condanna: proprio come la tragedia eschilea imprevedibilmente già ci suggeriva migliaia di anni fa.