Lavoriamo tanto, lavoriamo concentrati, lavoriamo con impegno. Tutte e tutti, quando abbiamo un lavoro.

Perché custodiamo in noi la convinzione che il lavoro nobiliti gli esseri umani, donne e uomini. Perché l’impegno e i risultati portano a nobilitare gli esseri umani. Già, nobilitare, cioè prendere per mano le conoscenze mentre danzano per rischiarare gli spazi della vita e per donare signorilità e prestigio. Questa idea si annida nel nobile verbo.

Lavoriamo, talvolta con soddisfazione, talvolta per inerzia, spesso per necessità. Qualcuno, più fortunato di altri, può dire di lavorare per piacere e passione. “Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neppure un giorno in tutta la tua vita”, è una riflessione attribuita al pensatore e filosofo cinese Confucio. Rinforza il concetto lo scrittore russo Lev Tolstoj, che con realismo ha descritto l’umanità e la disumanità del lavoro: “Possiamo vivere nel mondo una vita meravigliosa se sappiamo lavorare e amare, lavorare per coloro che amiamo e amare ciò per cui lavoriamo”. “Questo mestiere mi piace, anzi non riesco a immaginare nessun altro che mi possa piacermi di più”, aveva detto Gino Strada, fondatore dell’associazione Emergency, morto lo scorso 13 agosto.

Il lavoro è fatica

La parola lavoro ha un antenato latino, il sostantivo labor, che in una frase quando assumeva il ruolo di complemento oggetto si trasformava in labōrem. Al tempo dell’antica Roma, quel labor era ‘fatica’, ‘travaglio’, ‘pena’, sudore della fronte per lo sgobbare, spesso nei campi, dall’alba al tramonto, sotto il sole che arroventa le zolle o sotto la pioggia scrosciante che dilava il frumento dorato.

Quel labor indicava il lavoro faticoso, quello che richiede sacrificio, sforzo e affanno e che rilascia una stanchezza fisica estrema che ti penetra nelle ossa fino a piegarti le gambe e a tramortirti. In alcune lingue che derivano dal latino, la traccia del labor è rimasta impressa in alcune parole connesse alla vita nei campi: in catalano llavor vuol dire ‘seme’, in spagnolo labor e in portoghese lavor hanno il significato di ‘aratura’ e di ‘dissodamento’, in sardo il laore è il ‘frumento’.

Parole disseminate nei terreni delle nostre lingue germogliano in modo sorprendente e portano frutti insperati.

Alcuni studiosi di etimologia mettono in relazione il verbo laborāre con un altro verbo latino, lābi, che significava ‘cadere’, ‘scivolare’, ‘scorrere giù’ nel senso di ‘vacillare sotto un peso’, il peso della fatica che ti fiacca e ti fa piegare le gambe. Non tutti gli studiosi sono concordi con questo legame ma una cosa è certa: da quel labi antico sono derivati in italiano l’aggettivo labile, che vuol dire ‘destinato a una scomparsa rapida’, il lapsus, che è un’involontaria scivolata linguistica, e la lava, che scorre giù dalle pendici del vulcano.

Alberto Nocentini, un linguista illustre, va oltre e sostiene che il verbo labi appartiene probabilmente alla stessa radice indoeuropea "leb-" che aveva a che fare con il ‘pendere’, e lo ‘stare sospeso’. Da quella pencolante radice ha preso origine il lăbrum ‘labbro’ e – secondo lo studioso - a questa si può forse ricondurre anche il gotico slēpan ‘dormire’, connesso all’inglese to sleep e al tedesco schlafen, che vogliono dire ‘dormire’, attraverso il significato di ‘pendere dal sonno’.

C’è da rimanere a bocca aperta di fronte ai ghirigori della lingua: dalla fatica del lavoro al cadere esausti in preda al sonno il passo è proprio breve.

Scrive Haruki Murakami, lo scrittore di bestseller giapponese: “Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica riusciamo a provare, almeno per un istante, la sensazione autentica di vivere. Raggiungiamo la consapevolezza che la qualità del vivere non si trova in valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell’azione stessa, vi scorre dentro.”

Il lavoro in Francia e al Sud è più duro

In francese lavorare si dice travailler. Travagghiari è il verbo in siciliano. Il lavoro, a Parigi e a Palermo, è più duro. Ma anche a Madrid non si scherza con il trabajo, né a Lisbona con il trabalho.

Il lavoro in effetti può essere un travaglio, quando è faticoso, quando non dà soddisfazioni, quando non è valorizzato, quando non è remunerato in modo corretto. Travagliare in italiano significa ‘tormentare, affliggere, torturare, vessare’. Il travaglio è il momento del parto in cui le future mamme soffrono per le doglie. Il travaglio, sempre in italiano, è anche un attrezzo che serve per tenere fermi i cavalli inquieti o altre bestie, usato dai maniscalchi e dai veterinari e formato da un’incastellatura di pali.

Il suo antenato è il latino tardo tripalium, che era uno strumento di tortura fatto di tre pali, parola composta di tri- ‘tre’ e pālus ‘palo’. Braccio destro e gamba sinistra incatenati su un palo, braccio sinistro e gamba destra sull’altro, la testa e il busto sul terzo. Anche in questo caso, dallo strumento di tortura al lavoro il passo è etimologicamente breve.

A Londra lavorano con energia

To work è lavorare in inglese: fare qualcosa, compiere delle attività, ma anche azionare e far funzionare. Quel lavoro non è fatica né travaglio. Non ricorda né lo sgobbare nei campi da coltivare né gli strumenti di tortura.

Il lavoro in inglese si collega a una radice proto indoeuropea "werg-" che significa semplicemente ‘fare’. Quella radice la troviamo in tante parole, anche italiane. È la stessa radice del greco antico érgon, che stava ad indicare una ‘azione’ e anche il ‘lavoro’, e il ‘risultato del lavoro’, quindi l’opera.

La parola érgon ha figliato moltissimo, si è riprodotta in continuazione e la ritroviamo costantemente nel nostro lessico, in forme più o meno riconoscibili.

Energia, ad esempio, è figlia di quella mamma antica. Nell’antica Atene, enérgheia era ‘forza’, ‘energia’, ‘efficacia’, ‘azione’, ‘atto’. Per il filosofo Aristotele enérgheia era ‘atto’, cioè la realizzazione di ciò che è potenza (e potenza si diceva dýnamis, da cui in italiano le parole dinamica e anche dinamite), come il seme di un’idea in potenza diventa la pianta rigogliosa di un progetto realizzato in atto.

Derivanti da quell’érgon, così connesso al work, in italiano troviamo la sinergia, che appunto è un altro modo per definire la ‘collaborazione’: sinergia porta proprio in sé l’idea del lavorare insieme, comprendendo l’importanza delle altre persone, affidandosi con fiducia al team e a ciascuno/ciascuna dei suoi componenti. Ma derivata da érgon è anche la liturgia, cioè l’insieme di riti indispensabili per celebrare il culto, anche il culto del lavoro, e anche i chirurghi, coloro che “praticano un’arte che si compie con le mani, devono molto a quella forma di lavoro.

Il lavoro dei robot a Berlino

Intelligenza artificiale, automatizzazione, robotizzazione, integrazione essere umano-macchina. Ecco il lavoro del futuro, diverso dall’attuale, non prevedibile, incerto. Siamo ciechi di fronte al futuro, siamo orbi anche di fronte al futuro del lavoro.

Arbeit si dice lavoro in tedesco. Ha una storia particolare la parola lavoro utilizzata a Berlino. Questo sostantivo appartiene infatti allo stesso campo semantico, cioè di significato, di parole sue “parenti” prossime in altre lingue: in russo rabóta significa lavoro; rabŭ in slavo antico era lo ‘schiavo’, il ‘servo’, il ‘garzone’ e rabota voleva dire ‘servitù’; nella lingua cèca robota vuol dire ‘lavoro servile’, ‘servizio della gleba’.

La parola italiana robot, cugina appunto di Arbeit, ha avuto successo grazie a uno scrittore cèco, Karel Čapek che l’ha introdotta in uno dramma teatrale di fantascienza pubblicato nel 2020, “Rur”, Robot Universali di Rossum. In quel testo, i robot erano automi che lavoravano al posto degli operai nelle fabbriche.

Ma andando a ritroso, lasciando che alcuni dizionari etimologici ci aiutino a togliere la terra accumulata dal tempo attorno alla radice delle parole, troviamo una connessione tra termini dal significato diversissimo, “parenti” davvero alla lontana, i cui tratti somatici in comune si sono dissolti tanto da farli apparire diversissimi.

L’antica radice indoeuropea "orbho" da cui discende Arbeit, ‘lavoro’ in tedesco, significava ‘privo di padre’ e anche ‘privato dello stato di libertà’. È la medesima radice da cui derivano il sanscrito arbhah, ‘debole’, ‘bambino’, il greco antico orphanós, che significava ‘orfano’, ‘privo di genitori’, e il latino ŏrbus, che voleva dire sia ‘orfano’ e ‘vedovo’ sia (in senso figurato) ‘privo’ e ‘mancante’ sia ‘cieco’ e ‘guercio’. Ebbene, da quell’orphanós abbiamo ottenuto la parola orfano, mentre da quell’ŏrbus è derivata la parola orbo, lontani parenti dell’Arbeit.

Il lavoro nobilita gli esseri umani. A volte però gli esseri umani diventano ciechi come quando edificano campi di lavoro e di sterminio al cui ingresso collocano la scritta oscena Arbeit macht frei, ‘il lavoro rende liberi’. Quel “lavoro” progettato dal regime nazista ha generato migliaia di orfani. Quel “lavoro” ha cancellato lo sguardo dal bene. Quel “lavoro” ha tentato di trasformare le persone in oggetti, come fossero cose, robe, robot.

Lavorare stanca

Abbiamo sorvolato sui prati del lavorare nelle diverse lingue. Lavorare stanca è il titolo di una raccolta di poesie pubblicate nel 1936 di Cesare Pavese (1908-1950), scrittore, poeta, critico letterario del nostro miglior Novecento italiano. Disciplina è una lirica contenuta in questa raccolta, scritta nel 1934, merita la lettura o la ri-lettura, perché nei versi possiamo trovare una delle forme possibili del nostro lavoro.

Disciplina

I lavori cominciano all’alba. Ma noi cominciamo
un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi
nella gente che va per la strada. Ciascuno ricorda
di esser solo e aver sonno, scoprendo i passanti
radi – ognuno trasogna fra sé,
tanto sa che nell’alba spalancherà gli occhi.
Quando viene il mattino ci trova stupiti
a fissare il lavoro che adesso comincia.
Ma non siamo piú soli e nessuno piú ha sonno
e pensiamo con calma i pensieri del giorno
fino a dare in sorrisi. Nel sole che torna
siamo tutti convinti. Ma a volte un pensiero
meno chiaro – un sogghigno – ci coglie improvviso
e torniamo a guardare come prima del sole.
La città chiara assiste ai lavori e ai sogghigni.
Nulla può disturbare il mattino. Ogni cosa
può accadere e ci basta di alzare la testa
dal lavoro e guardare. Ragazzi scappati
che non fanno ancor nulla, camminano in strada
e qualcuno anche corre. Le foglie dei viali
gettan ombre per strada e non manca che l’erba,
tra le case che assistono immobili. Tanti
sulla riva del fiume si spogliano al sole.
La città ci permette di alzare la testa
a pensarci, e sa bene che poi la chiniamo.