Intenderò per “mito” un sistema dinamico di simboli, di archetipi e di schemi; sistema dinamico che tende a comporsi in narrazione.

(Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario)

È giunta l’ultima età dell’oracolo cumano
Nasce di nuovo il grande ordine dei secoli
Già torna la Vergine, e torna il regno di Saturno.

(Virgilio, Bucoliche, Ecloga IV)

La prima funzione del Mito è implicita nel suo etimo: racconto. La funzione narrativa del mito rappresenta una matrice arcaica e ancestrale che persiste nel tempo e genera a sua volta susseguenti processi narrativi e metamorfici. Un esempio chiarissimo si ha nel mito del Graal, cioè nel racconto evangelico e paravangelico che accenna a tale oggetto di massima sacralità cristica. Una serie di testi che appaiono connessi ai Vangeli (tra i molti: Acta Pilati, Vindicta Salvatoris) e veicolanti racconti e tradizioni popolari i quali generano un contesto mitizzante, al cui interno emerge poi un nuovo processo epico-mitogonico; in questo caso dato dal Perceval di Chretien de Troyes e dal Giuseppe d’Arimatea di Robert de Boron, i primi romanzi dell’Occidente.

Abbiamo quindi un racconto archetipale dato dai Vangeli e dalla scena narrativa dell’utilizzo di un recipiente come contenitore di cibo nell’Ultima Cena, a cui si associa e sovrappone l’idea di un altro recipiente, poi assimilato al primo, utilizzato da Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue di Cristo crocefisso. Da uno schema ad un contesto e da un contesto ad un epos, sempre ruotante, come in cerchi concentrici o in una spirale allargantesi, attorno al medesimo oggetto mitico e mitizzante: il Graal di Cristo.

Il Mito quindi quale racconto delle origini, quale racconto universale e partecipabile, performativo, fecondo, quale racconto sacrale e sacralizzante, epifanico. Non ogni racconto antico, quindi, appartiene alla dimensione mitica né la rivela. Il mito quale racconto che presuppone una filosofia implicita dell’Essere e di un Essere che sa e può manifestarsi nel tempo attraverso più forme e segni. Possiamo considerare il mito quale “racconto dell’Essere nel suo aspetto impersonale”. Un racconto che contiene sempre al suo interno una traccia logica, un suo Logos. Dopotutto mythos significa anche parola, discorso, comando, annunzio.

Che differenza quindi tra la parola-mythos e la parola-logos? La parola e il racconto mitico possiedono una dimensione sociale, kerigmatica, pubblica, una natura performativa, che si autoimpone. La parola-logos invece manifesta una natura e un aspetto razionale, speculativo, più solitario, astratto, individuale. Entrambi possiedono un’aura basica, esprimono una ragione profonda, rinviando ad un “principio”. Un’altra funzione del mito possiamo definirla quale “funzione linguistica”. Il mito sta all’origine delle parole, abita i loro etimi più primordiali. Il mito quale metafisica del linguaggio, sua matrice originaria e persistente.

Cambiano le culture e le storie ma prodigiosamente nel mito resta latente una dimensione linguistica aurorale e assoluta, tanto quanto una “singolarità” irriducibile. Tutti i nomi dei luoghi e dei protagonisti del mito sono nomi “parlanti”, epiteti, cioè nomi totemici, talismanici. È come se il mito fosse un tipo di linguaggio, prima che un tipo di racconto, e un linguaggio che si comunica diacronicamente e trans-storicamente per via archetipale, subliminale, istintiva.

Il mito quale linguaggio parallelo al linguaggio discorsivo-razionale, carsico, inconsapevole ma sapiente e iper-efficace, cioè operante oltre i contesti storico-sociali originari. Un linguaggio metamorfico. La terza funzione del mito è quella che possiamo definire “filosofica”, cioè sapienziale, conoscitiva, meditativa. La filosofia post-sciamanica quale dimensione autonoma sorge con Platone e in Platone sorge quale razionalizzazione del mito, quale riflessione su immagini e racconti mitici.

Senza il mito di Er la Repubblica di Platone sarebbe priva di spessore universalistico e cosmico. Senza i racconti mitici su Eros la speculazione platonica non si eleverebbe alle sue altezze trasfigurative e speculative. Il dialogo platonico contiene quale matrice originaria la discussione fra versioni differenti del mito, fra più racconti mitici. Possiamo chiamare la filosofia di Platone un tentativo di una “nuova mitologia”.

Ne troviamo conferma in Porfirio, discepolo principale di Plotino, e nella sua opera di allegorizzazione filosofica dei poemi omerici. Il suo Antro delle ninfe rappresenta una forma di ermeneutica filosofia del mito. Da una parte così le immagini e i racconti del mito vengono razionalizzati, destrutturati, ridotti ad altro, manipolati, dall’altro questa operazione permette di loro di assumere metamorficamente un’altra vita, più persistente trans-storica. La filosofia quale forma di ri-mitizzazione. Da un altro punto di vista ogni dimensione mitica si rivela naturalmente filosofica, in quanto tratta i “fondamentali” dell’esistere umano: l’eroismo, la passione, l’amicizia, il destino, l’avventura, la guerra, il perpetuarsi delle generazioni, cioè tutte le principali dialettiche naturali, sociali e animiche.

La quarta “funzione” del mito si individua quale funzione creativa, estetica, artistica. Il mito, greco o endocristiano, è stata la principale fonte di ispirazione artistica per due millenni. Senza i romanzi di Parsifal non ci sarebbero i castelli di Ludwig di Baviera, senza Omero non ci sarebbe la Pentesilea di Carmelo Bene. Questo abissale poeta e metafisico del teatro ci dimostra come sia possibile in epoca vicina a noi “cantare il mito” quale realtà nuova e compresente, come fatto aurorale, imprevisto, epifanico. Il mito quale racconto per immagini, storia che suscita immagini e rappresentazioni derivate. Il mito quale prima opera sociale umana, sia arte che narrazione e rito, come si manifesta nelle pitture e incisioni rupestri. E la quinta funzione mitica è proprio quella rituale-sociale. Il rito quale iniziazione, quale prova eroica. Quanto deve compiere Heracle - e Odisseo - per compiere il suo destino, conquistare la divinizzazione o riconquistare il proprio regno!

Il mito poi attiene agli aspetti fondativi, al sorgere di una stirpe, di una città, di una nuova alleanza, di un nuovo santuario. Anche in questo rivela un insopprimibile dimensione storico-sociale. Sparta, Argo, Atene, Tebe, i Messeni, gli Etoli, i Tessali, i Macedoni e tutte le più importanti città-stato e popolazioni della Grecia antica, come tutte le colonie romane, fondavano la loro comunità su racconti e riti sacrali, da perpetuare in eterno. Atene era la città di Athena, e gli Spartani i figli dei “Seminati” da Cadmo, sorti dai denti del drago di Ares seminati dall’eroe fenicio. Il mito disegna una geografia sacra e memorizza, trasfigurandole, vicende di peregrinazioni rituali di clan, eroi e culti.

La sesta funzione possiamo definirla storico-educativa. Senza l’Iliade che Aristotele insegnava al giovane Alessandro il Macedone e senza le imprese del padre Filippo e i culti dionisiaci della madre Olimpias non sarebbe sorto Alessandro quale imperatore, Alessandro quale nuovo mito, epifania dei miti antichi.

I poemi omerici nella loro funzione educativa dimostrano facilmente la natura del mito quale paradigma, quale esempio che insegna e con cui occorre confrontarsi. Lo stesso mito con la sua ripetitività archetipale opera quale sigillo e garanzia di una società organica, dell’organicità della società. Solo in una società organica è possibile l’operatività di un ciclo semantico-temporale tale per cui sorge Alessandro Magno quale replica di Achille, sua nemesi. Il mito quale dimensione letteralmente “enciclopedica” in quanto fonda un’educazione iniziatica ciclica e completa.

La settima funzione del mito è la funzione “ermeneutica”, cioè il mito quale matrice e palestra interpretativa, grazie alla sua polisemia, alle sue stratificazioni, alla sua vasta e profonda declinabilità e abitabilità. La stessa parola “ermeneutica” appare chiaramente retaggio mitico in quanto deriva da Hermes, status metamorfico che fa da ponte fra silenzio e parola, rito e soglia, avventura e mistero. Divinità massimamente kerigmatica, epifanica, apocalittica, già pre-cristica. Senza i mondi del mito e della loro ricezione non sarebbe possibile intellettualizzare la mediazione tra i tempi, i linguaggi, le culture, né sarebbe possibile capire i processi mitopoietici e di simbolizzazione sempre presenti in ogni società per quanto desacralizzata.

Il mito quale semeion, cioè incontro semantico, alleanza di valore. Al posto del termine “funzione”, molto warburiano e propperiano, possiamo rimodulare la polimorficità del mito in quattro “dimensioni”:

  • la dimensione sciamanica, radicale, verticale;
  • la dimensione dell’origine, della socio-cosmogenesi, aspetto e aura strutturante e replicante;
  • la dimensione eroico-epica-agonica;
  • la dimensione dell’olos, della totalità, dell’organicità, includente il ragionare e pensare per cicli temporali e includente anche aspetti profetici, apocalittici e proiettivi nel futuro.

Il destino e il tempo appartengono all’immaginario del mito. Basti pensare alla tradizione delle Sibille, all’importanza di Delfi e dei molti santuari greci antichi, quasi tutti da vedersi anche quale dimore oracolari, per comprendere come la dimensione mitica non è mai stata rivolta solo verso il passato ma ha sempre contenuto in se stessa, nelle sue profondità, anche il racconto e il senso del “ritorno”, di un futuro rivelativo e compensativo-trasfigurativo, di cui la quarta Ecloga delle Bucoliche di Virgilio rappresenta una delle più suggestive e misteriche manifestazioni.

Riguardo alla “natura” del mito possiamo ridurla a due aspetti, presenti anche nel concetto di “simbolo”: una natura performativa, presenziale, ramificante, polarizzante e una contestuale natura “che rinvia ad altro”, metaforizzante, trascendente, aperta al sacro e al mistero. Il mito produce totem, blasoni, talismani, pietruzze di Pollicino nella foresta del possibile.

Non c’è alcuna scissione nel mito fra significante e significato, fra corpo e semantica, fra esserci e ierofania. Giano bifronte, tanto misterico quanto a suo modo logico.