Il cambiamento è un concetto sfuggente. Nell’esperienza comune viene percepito come differenza tra un prima e un dopo. Il cambiamento è diventato oggi una necessità irrinunciabile, sinonimo di progresso e di benessere: è necessario cambiare per non arretrare, ma soprattutto per migliorare le proprie condizioni di vita.

In fisica l’unico cambiamento spontaneo è la crescita dell’entropia, cioè della disorganizzazione e del disordine. È il principio di entropia che vieta al dentifricio di rientrare spontaneamente nel tubetto. Nel tubetto il dentifricio è in uno stato più organizzato di quando sta fuori. Non è sufficiente attendere il tempo che passa per farlo tornare indietro: ci vuole lavoro.

La crescita dell’entropia è un principio universale: per combattere l’entropia, per generare ordine, per costruire strutture, per mettere in ordine nella propria stanza e nella propria vita, c’è bisogno di lavoro. Tutti noi sperimentiamo il principio entropico in azione ogni giorno. Anche sul proprio corpo.

Chi si è interrogato ossessivamente sui segni che il cambiamento lascia nel corpo e nell’anima è Rembrandt, uno dei più grandi artisti del secolo dell’arte fiamminga. Rembrandt nasce nel 1606 a Leida e muore ad Amsterdam nel 1669. Ci lascia oltre 82 autoritratti, di cui 40 dipinti, 12 disegni e 30 acqueforti. Ne ho scelti tre.

Il primo è l’Autoritratto con gorgiera del 1629. Rembrandt è un giovane spavaldo di 23 anni. Un guerriero pronto all’assalto della vita. Indossa una gorgiera di lucente metallo. Insieme alla bocca serrata e allo sguardo diretto proclama la sua determinazione. Ma notiamo anche un morbido e bianco colletto con frange vezzose che fascia il collo con noncurante eleganza, e il ciuffo che cade accuratamente sulla fronte secondo la moda dell’epoca: svelano una preparazione minuziosa, la necessità di offrire una adeguata rappresentazione di sé nel momento in cui sta cominciando ad affacciarsi alla ribalta della vita.

Nessuno come Rembrandt è consapevole della mise-en-scène, della rappresentazione esteriore del sé. Nessuno come Rembrandt riesce a estrarre l’anima nascosta delle persone, i loro desideri, i loro sogni, le ambizioni e le potenzialità. Nessuno come Rembrandt riesce a portarli in superficie e dare loro una forma visibile: la postura del corpo, i gesti delle mani, il tessuto e il colore della pelle, i movimenti degli occhi e della bocca, la complessa trama dei capelli, le vesti: tutto ci parla della vita interiore del soggetto ritratto. Rembrandt usa sé stesso come laboratorio per affinare la propria portentosa abilità di rendere visibile ciò che è invisibile.

Il secondo ritratto è l’Autoritratto con camicia ricamata del 1640. Rembrandt ha 34 anni. È già è un artista di successo, acclamato per i suoi ritratti. Si dipinge avvolto da un sontuoso abito orlato di pelliccia. Si proclama erede di Tiziano, di cui imita la postura: il braccio appoggiato sicuro sulla balaustra, il cappello scuro che circonda il capo e proietta il volto verso lo spettatore.

Potrebbe sembrare un dipinto di maniera, un’auto-celebrazione della propria grandezza. Ma Rembrandt ha un istinto naturale nel saper ascoltare le voci più sottili del proprio mondo interiore. Osservando con accuratezza il dipinto si nota il volto solcato da chiarori eccessivi e parzialmente velato da ombre, le sopracciglia leggermente contratte, l’occhio interrogativo, la mano parzialmente nascosta che rifiuta ogni gesto imperioso.

Da mille piccoli particolari emerge una sotterranea inquietudine, il timore di una prosperità minacciata. Nei due anni precedenti Rembrandt aveva perso tre figli in tenera età, e questa personale esperienza della vita e della morte aveva lasciato in lui un senso profondo di precarietà che la rappresentazione del successo non riesce a tacitare.

Il terzo ritratto è l’Autoritratto del Mauritshuis, L’Aia del 1669. È l’ultimo autoritratto dell’artista, dipinto qualche mese prima della morte a 63 anni.

Rembrandt è solo, vecchio, malato, povero, assediato dai creditori, senza più clienti. Eppure, si ostina a dipingere. Nell’ultimo ritratto, si rappresenta per quello che è, quello che la vita gli lascia. Il volto è butterato, ispessito e gonfio. I capelli sono una nuvola di polvere. La pennellata che lo descrive non va in cerca di dettagli: è spessa, ampia, pastosa, è gesto che non ha più interesse a indugiare nel cesello di forme elaborate. Ogni pennellata è una sintesi audace, un gesto zen. Ci dice con assoluta sincerità ‘questo sono io, questa è la mia verità’.

Ma in quel volto, in quella materia che resiste a stento alle forze inesorabili del disordine entropico, in quell’animo, che il tempo e le avversità della vita cercano di sopraffare, non vi è nessuna rassegnazione, nessuna auto-commiserazione: lo sguardo conserva ancora la fierezza del ritratto giovanile. Il tempo lo ha solo addolcito, rendendolo più comprensivo e compassionevole. Rembrandt è un uomo in pace con sé stesso, che alle soglie della morte ha accettato della vita tutti i rivolgimenti.

Nei tre ritratti di Rembrandt vediamo il cambiamento delle forme visibili e il cambiamento del mondo interiore. Ma vediamo anche qualcosa di più: nelle metamorfosi del corpo e dell’animo c’è qualcosa rimane immutato: la consapevolezza dell’uomo Rembrandt del proprio valore di artista.

Gli autoritratti di Rembrandt ci lasciano un messaggio: il cambiamento è necessario, talvolta devi desiderarlo, più spesso non puoi opporti, ma ogni cambiamento ha una sua ragione solo in ciò che riesce a preservare. Si cambia qualcosa per poter mantenere qualcos’altro. Se scopri cos’è, allora il cambiamento ha un senso.