Sin dall’infanzia ci vengono imposte delle regole su quello che dovrebbe essere il nostro ruolo, il nostro aspetto o le nostre qualità morali all’interno della società. “Giochi con le bambole? Ma è da femmina!”, “Non puoi giocare a calcio sei non sei un maschio”, “Piagnucolare è da femmina!” sono solo alcuni degli esempi che inevitabilmente abbiamo sentito almeno una volta nella nostra vita e che probabilmente ancora oggi ci accompagnano nella vita di tutti i giorni.

Pensare che il colore rosa appartenga al sesso femminile, mentre quello blu a quello maschile, che l’aggressività e la forza siano qualità prettamente maschili mente l’emotività e il romanticismo caratterizzino soltanto il genere femminile, significa guardare il mondo attraverso degli stereotipi, in questo caso gli stereotipi di genere. Non credo vi sia una definizione precisa su cosa essi siano esattamente. Per me rappresentano l’insieme di tutte quelle credenze tramandate di generazione in generazione che hanno un solo scopo: raggruppare i singoli individui in base alla loro appartenenza di genere, ed eventualmente dividere la società, più di quanto non lo sia già.

Per molte persone queste norme avrebbero il compito di semplificare la realtà che ci circonda, in un modo che però risulta essere del tutto impreciso. Gli stereotipi di genere, infatti, non tengono conto dell’evoluzione del gruppo sociale al quale si riferiscono e tantomeno del mondo che gli si sviluppa intorno; non considerano l’individualità del singolo e non lasciano spazio alle scelte personali.

Per una donna, malgrado le numerose lotte femministe per raggiungere la parità di genere, vedersi ancora costretta a dover sopportare numerose privazioni a livello personale quanto sociale, rappresenta una grande sconfitta. Essere considerata il “secondo sesso”, la persona subalterna all’uomo, guidata dalle emozioni e incapace di poter lavorare in un ambito diverso da quello umanitario – ad esempio come insegnante – che deve occuparsi della casa, dei figli, ha decisamente i suoi svantaggi. Spesso, nel caso degli uomini, gli stereotipi di genere possono addirittura essere la causa della cosiddetta “mascolinità tossica”, un termine sempre più utilizzato negli ultimi anni per indicare quella serie di atteggiamenti che tendono a rinnegare ogni forma di emotività o fragilità e a elogiare la durezza e la violenza, considerati, invece, valori fondamentali per un uomo.

Gli stereotipi di genere vengono spesso visti dalla società come vantaggiosi in quanto si basano su certezze consolidate e immutabili, le quali, a loro volta, tendono a dare sicurezza alle persone e a preservare le differenziazioni tra il genere con cui ci identifichiamo e gli altri generi. Ciò che però non viene considerato è che tali stereotipi ci impediscono di crescere sia a livello personale che emotivo. Essi limitano le nostre scelte, opportunità e nella maggior parte dei casi portano alla discriminazione.

Proprio per questo è importante liberarsene. Ma in che modo possiamo farlo?

Contrastare gli stereotipi di genere, ahimè, non è semplice. Le loro radici, infatti, affondano i secoli di tradizioni e culture. Probabilmente, il passo più difficile – ma anche il più importante – è proprio quello di identificare tali stereotipi. A mio parere, ciò che davvero potrebbe portare a dei cambiamenti è l’educazione di bambini e adolescenti. È importante che essi capiscano il concetto di pari opportunità, che apprezzino e soprattutto promuovano le diversità di genere. Solo in questo modo sarà possibile, in futuro, vivere in una società che non si basi su stereotipi di genere, libera da etichette e nella quale le diversità, anziché rinnegate, vengano apprezzate e promosse.