Mishima Yukio (Tokyo, 14 gennaio 1925) fu uno degli scrittori giapponesi più tradotti al mondo e uno dei pochi del suo tempo a riscuotere ampio successo anche in Occidente, forse più che in Oriente. Lo si potrebbe considerare un’icona culturale del Giappone: c’è chi lo definisce l’ultimo samurai, anche se in diverse occasioni gli è stato rimproverato dagli stessi giapponesi di incarnare ideali troppo anacronistici. La sua personalità era alquanto controversa, frutto di contraddizioni intrinseche nate in età infantile, che non riuscì mai a risolvere, ma che pur sempre tentò di riconciliare attraverso l’espressione artistica fino al giorno della sua morte.

Mishima oscillava tra la tradizione e la modernità, l’estetismo e il fanatismo ideologico. Il suo filo conduttore potrebbe, però, riassumersi in una parola: thymos, in greco θυμός, espressione usata per indicare l’umano desiderio di riconoscimento e affermazione (cfr. Frenţiu 2010).

Voleva fare della sua vita uno spettacolo dal finale sensazionale. Che sia riuscito o meno a rendere la sua esistenza un’opera d’arte poco importa, fatto sta che da questa tensione al sublime sono nati dei veri e propri capolavori artistici. Nel 1968 fu candidato al Premio Nobel per la Letteratura, ma non lo ottenne. Le sue idee vennero per certi versi anche un po’ travisate e si temeva che attraverso il successo potesse dare ai lettori un cattivo esempio.

Da giovane Mishima non godeva di ottima salute, il suo fisico era gracile e minuto e questo fu per lui senza dubbio motivo di vergogna per lungo tempo. Un episodio che segnò profondamente la sua vita fu all’epoca della Seconda guerra mondiale, quando venne convocato in qualità di soldato dall’esercito imperiale giapponese, ma poiché non aveva ancora un animo combattente, finse i sintomi della tubercolosi e il medico lo dichiarò inadatto per il servizio militare. Questa esperienza di tradimento nei confronti del proprio Paese fu un trauma che non riuscì mai a elaborare e che fu sicuramente alla base della sua devozione smisurata nei confronti della tradizione giapponese.

A partire dal 1952, un po’ per riscattarsi dalla fragilità della sua giovinezza, Mishima cominciò ad allenarsi per irrobustire il suo corpo attraverso il nuoto, il pugilato e il sollevamento pesi (cfr. Kawasaka 2015: 47). Collaborando con l’Asahi Shinbun, il più famoso quotidiano giapponese, ebbe modo di viaggiare per il mondo e soprattutto in Europa, da qui la sua buona padronanza della lingua inglese e francese. La Grecia, in particolare, meta da sempre desiderata, gli fece riscoprire la bellezza del culto classico e l’estetica del Canone di Policleto (cfr. Spada o.l. 2020: 4). Questo gli servì indubbiamente da sprone per cominciare ad esporre il proprio corpo muscoloso cimentandosi nella disciplina del culturismo.

Il tradizionalismo distintivo di Mishima non gli impedì certo di sfruttare al massimo gli strumenti che il mondo moderno gli metteva a disposizione. Non ebbe paura di cavalcare l’onda mediatica né di destare scandali. Nel 1963 posò nudo per Barakei, un servizio fotografico in bianco e nero di Hosoe Eikō (cfr. Kawasaka 2015: 47). Gli scatti presentavano non pochi riferimenti e citazioni al Rinascimento europeo e in una fotografia si fece persino ritrarre nelle vesti tipiche dell’iconografia di San Sebastiano, martire per il quale Mishima aveva certamente un debole, per il suo corpo perfettamente proporzionato e trafitto da frecce.

I nuovi mezzi di comunicazione di massa suscitarono il vivo interesse di Mishima. Il cinema, in particolare, esercitava su di lui un tal fascino che non poté non dedicarvisi con tutto se stesso. Credeva nello straordinario potenziale della cinematografia e molti critici ritengono che avesse rivestito Yūkoku, la sua unica opera filmica – scritta, diretta, prodotta e interpretata da Mishima Yukio – del valore di vero e proprio testamento morale della sua vita.

Il suo esibizionismo e l’ostentazione dell’autenticità del suo essere giapponese furono assai criticati con l’accusa di aver contribuito a rafforzare gli stereotipi che il resto del mondo associava al Paese del Sol Levante. L’immagine che rappresentava non corrispondeva alla realtà, bensì alle fantasie di chi, da un punto di vista tutto europeo, sognava ad occhi aperti l’esotismo nipponico. Non senza imbarazzo alcuni intellettuali di origine giapponese, tra cui Ishiguro Kazuo e Kenzaburō Ōe, concordavano sul fatto che la vita e ancor di più la morte di Mishima fossero stati uno spettacolo riservato ai soli pubblici occidentali.

Il 25 novembre del 1970 Mishima e una scorta d’onore di quattro ufficiali del Tate no Kai in uniforme si recarono al Quartier Generale delle Forze di Autodifesa nel centro di Tokyo e occuparono l’ufficio del Generale Mashita, Capo delle Forze Armate dell’Oriente. Dopo aver legato quest’ultimo ad una sedia, Mishima si affacciò al balcone per elencare i punti del suo manifesto restauratore dell’antico regime ad un migliaio di soldati radunati nel cortile. Purtroppo, però, il discorso non ebbe l’effetto desiderato di infiammare gli animi bellicosi dei militari; al contrario, le sue parole risultarono pressoché incomprensibili agli orecchi della folla, che finì per deriderlo e schernirlo (cfr. Kawasaka 2015: 50). Concluse dicendo: “Muoio per l’onore dell’Esercito, muoio per amore della Giustizia” e, dopo aver gridato: “Viva l’Imperatore, Viva il Giappone!”, commise seppuku, il suicidio rituale del codice samuraico, penetrando il suo ventre con la katana per una decina di centimetri. Poiché la sua possente muscolatura rendeva il compito più arduo e decisamente meno poetico, fu necessario che un suo compagno gli mozzasse la testa per risparmiargli un dolore così atroce.

C’è da dire, però, che la sera prima del sacrificio aveva portato la sua famiglia a consumare la cena di commiato alla vita in un ristorante nel quartiere della Ginza, uno dei più lussuosi di Tokyo, paragonabile agli Champs-Élysées, Broadway o Piccadilly (cfr. Spada 2020 o.l.: 6). D’altronde, quando si trattava di consumismo all’occidentale, Mishima non si mostrava più così conservatore come quando era in divisa.

Pur non potendo capire a fondo le ragioni alla base del suo gesto estremo, non sarebbe sbagliato individuarvi, come suggerisce Muramatsu (2011 o.l.: 138), un tentativo di colmare un vuoto che si era venuto a formare nella cultura di un Giappone troppo poco patriottico, ma anche nella cultura personale di Mishima, per via delle sue innumerevoli contraddizioni. Un vuoto che non poteva più essere colmato con la penna, né con la parola, né con il corpo, ma con la sua stessa esistenza.