A volte a consolare sei tu e allora basta davvero poco per fare stare meglio quella frazione dell’ampia umanità globale che è la persona che ti sta vicino. Le tue parole diventano lenitive, un medicamento per lo spirito affranto, una pomata miracolosa da spalmare sull’anima di chi cerca sostegno. A volte sei tu ad avere bisogno di qualcuno che ti ascolti, di una spalla sulla quale riversare qualche lacrima, di un gesto di conforto. Un nonnulla ti fa stare meglio: un sorriso, uno sguardo, un silenzio carico di intensità che ti rimbomba nel cuore.

Nel grande teatro della vita le parti si invertono in continuazione. Ora sei qui, poi sarai lì, sullo stesso palcoscenico. Uno schiocco di dita, il tempo di un soffio, un battito di ciglia: gli attori sono già disposti a studiare nuovi copioni da rappresentare, lo vogliano o no. Sulla Terra, ognuno deve stare sempre pronto a srotolare nuovi paesaggi, talvolta albe cariche di speranze, talvolta tramonti di fuoco.

Soothing, il calmante inglese

C’è una parola inglese che conforta come una mano appoggiata sulla spalla durante una notte di struggimento, come le dita che asciugano le lacrime da una guancia diventata triste, come un abbraccio che lenisce i dolori che squarciano la vita.

Questa parola è soothing. È difficile tradurla in italiano. Rasserenante, addolcente, confortante, calmante. In soothing ascolti il lungo sospiro pronunciato dall’amante vicino all’orecchio dell’amata. In soothing percepisci le melodie rilassanti del Claire de lune di Debussy o la ninna nanna di Brahms che risuonano con dolcezza nella tua mente. In soothing avverti la lentezza del tempo che rende meno tempestosi gli affanni dell’esistenza. Soothing è in definitiva un balsamo per la tua anima.

La sensazione di quiete, di morbidezza, di conforto insita in soothing non esisteva in origine nella lingua inglese. Nell’inglese antico, to soothe voleva dire semplicemente ‘mostrare di dire la verità’, come nel sostantivo arcaico sooth che è ‘la verità’, ‘la realtà, ‘il fatto’. Il passaggio da un significato all’altro potrebbe essere avvenuto tramite questo snodo: “addolcire qualcuno affermando che ciò che dice è vero”. Ma noi possiamo fantasticare e immaginare che solo il vero, ciò che è, sia davvero di conforto, di con-forto, e renda per l’appunto più forti con- le altre persone. Alcuni etimologisti tracciano infatti una connessione tra soothing e la forma del verbo essere che ritroviamo in “io sono” e “noi siamo”. Il presente, il reale, l’esistente, ecco questo ti calma i pensieri quando hai bisogno di conforto: “ciò che è” rassicura più di “ciò che è stato” e di “ciò che sarà”. Qui e ora. L’essere, l’esserci per davvero ammolcisce il transito terreno.

Quando il Mahatma Gandhi ha cercato una parola per definire la sua lotta di impegno non violento, la sua scelta di resistenza passiva, ha voluto il sostantivo satyagraha, che significa sì ‘resistenza nonviolenta’ ma che letteralmente vuol dire ‘insistenza per la verità’. Ecco, quel satya-, parente del sanscrito satyà, è un parente prossimo di to soothe e di soothing.

Torniamo quindi sempre lì, annodati a ciò che è vero come una gomena attorno alla sua bitta per consentire l’ormeggio, per cercare quel balsamo che ci conforti l’anima rasserenandola un po’.

Consolare rende ilari

“Beato chi può dire a sé stesso: io ho asciugato una lacrima”. Così il poeta toscano Giuseppe Giusti, uomo del Risorgimento. E quella lacrima va cercata nei volti del prossimo. Asciugare le lacrime altrui spesso allontana le proprie, toglie loro motivi per sgorgare, è ragione di benessere. È il “do affinché tu possa dare” che prorompe. Sono i segreti della consolazione, contemporaneamente utili a chi consola e a chi è consolato.

Sōlāri, che voleva dire ‘lenire’, è il verbo latino da cui deriva il verbo italiano consolare. Il con- piazzato davanti indica l’unione, la fratellanza e la sorellanza della consolazione, il fatto di sentirsi consonanti e vocali di una stessa umanità.

Da quell’antico sōlāri è disceso in italiano il sollazzo, che indica il ‘piacere’, il ‘divertimento’, che a sua volta è imparentato con l’aggettivo ilare, dal greco antico hilarós, che indicava una persona di buon umore, gaia, gioviale. La consolazione scaccia appunto il cattivo umore e lo trasforma in ilarità.

Al cuore del coraggio

Quando consoli incoraggi, infondi coraggio, apri un varco nelle arterie che portano al cuore sangue ricco di ossigeno. Il coraggio è collegato al cuore. La forza d’animo, l’audacia, la baldanza delle persone coraggiose stanno tutte in quel muscolo vitale, che noi che cerchiamo il vero connettiamo con la volontà di scendere dalla foglia al ramo, dal ramo al tronco, dal tronco alla radice delle singole parole.

Nel coraggio è presente il cuore degli antichi romani, che si diceva cor, cordis. Quel cuore antico e palpitante ha generato sia il coraggio sia la cordialità, come se quest’ultima fosse un modo per dimostrare coraggio. I saluti cordiali, in definitiva, sono saluti coraggiosi quando sono davvero sinceri. Quel cuore ha prodotto anche l’incoraggiamento, che per noi è ‘spinta’, ‘incentivo’, ‘sprone’, ‘impulso’ e che ha anche le tonalità pastello del rincuorare, cioè del trasformare quel cielo rabbuiato in un cielo sereno. Incoraggiare, in definitiva, è proprio questo: la capacità di usare più colori della stessa tavolozza, scegliendo quelli che aiutano a vivere meglio.

Sollievo e conforto, dalle piccole gioie

Scriveva Herman Hesse, l’autore di Siddharta:

Le piccole gioie, non quelle grandi, ci servono da sollievo e da conforto quotidiano.

Sollievo e conforto non sono parole sorelle: le loro madri hanno sempre percorso sentieri divergenti, piantando tende in territori distanti l’una dall’altra, occupando spazi dissimili, lasciandosi raccontare con voci diverse dagli umani parlanti.

L’unico elemento in comune tra sollievo e conforto sono quelle piccole gioie: proprio gli scarti minimi del resto consentono alla linea di congiungere i due punti lontani. I dettagli ti permettono di comprendere il tutto. Solo dall’inciampo sul particolare ottieni il lampo dell’intuizione.

Le piccole gioie, scoperte in quel mazzo di fiori gialli profumati, svelate in un sorriso troppo timido per celare il rossore delle gote, rischiarate da un sì inatteso e sorprendente, danno slancio al sollievo. A quel movimento dal basso in alto che è proprio della parola sollievo: una spinta gentile che garantisce impulso e moto. Sollievo, da sollevare, dal latino sŭblĕvāre, ‘levare in alto’, ‘innalzare’ e anche ‘alleviare’. Sollievo, figlio del levare da sotto in su e nipote del lieve. Nel sollievo, a ben guardare con sguardo curioso e aperto, trovi proprio la lievità, che è leggerezza dell’animo.

Il conforto invece ha altri antenati. Il confortāre dei romani, che è insieme ‘ristorare’ e ‘consolare’, è derivato da fortis -e che voleva dire ‘forte’. E quel fortis risale probabilmente alla stessa radice indoeuropea dher- da cui deriva anche fĭrmus, cioè ‘stabile’, ‘saldo’, ‘fermo’. Ecco, il sollievo è leggerezza e movimento, il conforto contiene la forza e la stasi: due modi diversi per rincuorare, due forme distinte forgiate dalle medesime piccole gioie.

Incitamento per non arrendersi

Forza, tirati su. Datti coraggio. Ce la farai.

Non trovi mai le parole appropriate ma, nel tentativo di consolare, provi a incitare chi ha l’animo ferito dalla vita, cerchi di ridare speranza a chi è preoccupato o ferito. Cerchi di motivare, cioè di imprimere moto allo spirito altrui. Incitare è proprio questo: ‘spingere’, ‘stimolare’, ‘aizzare’.

Il nonno di incitare è il latino cĭtāre, che a quel tempo significava ‘destare’, ‘muovere’ ma anche ‘chiamare’ e ‘convocare’, verbo a sua volta iterativo, cioè frequentativo di iterativo del verbo ciēre, cioè ‘mettere in movimento’. Quando inciti qualcuno a fare qualcosa, anche se fai il tifo per spronare la tua squadra a vincere, in realtà sproni a mettere e rimettere in movimento.

Scavando ancora un po’ alla ricerca di radici più profonde, puoi trovare il rizoma antico da cui si è sviluppato quel ciēre, una radice indoeuropea kei-/ki- che ha avuto un sacco di fortuna ed è riuscita a riprodursi in molte lingue parlate in occidente. Puoi rinvenire tracce di quella radice nell’incitare appunto, ma anche nel recitare, nell’eccitare e nel risuscitare, che vuol dire sì ‘ far rivivere un morto’, ma in origine più semplicemente ‘risvegliare’, ‘ridestare’, ‘smuovere un po’’.

Il cinema e la lunga serie di parole che fa capo a cinesi dell’incitazione sono cugine alla lontana. Muovi le immagini, smuovi le montagne del dolore.

Dice un proverbio arabo:

Non arrenderti. Rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo.

Del resto, lo devi ricordare in ogni istante, non potrebbero esserci giorni pieni di sole se il cielo non provvedesse anche ai lampi e alla pioggia.