Uno di questi giorni, durante una riunione di lavoro, mi sono soffermato su un pensiero che mi girava in testa da un po’: non siamo più abituati a vedere il mondo con gli stessi occhi di dieci/quindici anni fa, la realtà non è più la stessa.

Siamo d’accordo che tutto segue un flusso inarrestabile fatto di innovazioni, ricerca scientifica, sviluppo. Flusso che ci ha portato a reinventare il modo di decodificare la realtà: le immagini, soprattutto nel campo social e commerciale, devono soddisfare un desiderio di perfezione, creare un parallelo tra la visione pura e l’aspettativa che si ripone in quella visione.

Non vorrei toccare l’universo social che si fonda su regole proprie, dove finzione e realtà vanno a braccetto verso l’inevitabile presente del metaverso.

Posso prenderne spunto però per analizzare le dinamiche di un altro settore estremamente importante, la fotografia commerciale. Se devo pensare ad un esempio esplicativo, mi viene subito alla mente quei meravigliosi cartelloni dei fast food, panini perfetti, gonfi e farciti che aspettano solo di essere gustati. La differenza tra l’immagine e la realtà, a volte, raggiunge delle distanze siderali.

Inconsciamente sappiamo bene che il panino che mangeremo non è nemmeno lontano parente del suo alter ego stampato sul cartellone, eppure ci facciamo condizionare lo stesso. Cosa ci spinge a non far caso alle palesi differenze tra quanto pubblicizzato e il prodotto finale? Un corto circuito nel cervello che si presenta ogni qualvolta dobbiamo pensare ad un qualsiasi tipo di acquisto. Le agenzie di marketing hanno ben chiaro questo processo psicologico e ne fanno la loro maggiore arma. Ognuno di noi aspira ad una vita felice, al successo, a relazioni sentimentali sfavillanti. Andiamo dietro a qualsiasi immagine che rappresenti i nostri sogni, la nostra idea di felicità. È per questo che passiamo più di metà della nostra esistenza rincorrendo oggetti, luoghi, persone che qualcuno ci ha indicato come imprescindibili, se solo vogliamo avvicinarci a quella felicità. Tutto questo viene principalmente fatto attraverso le immagini.

Fotografiamo una realtà che non esiste, la plasmiamo seguendo i dettami che la società ci impone.

Quando era la pellicola a farla da padrone, si poteva modificare l’immagine: fotomontaggi, manipolazioni in camera oscura, ecc. Erano però magie per pochi, per la loro difficoltà e per il loro costo.

Le limitazioni imposte dalla fotografia analogica rimandavano a visioni più genuine, immagini più vicine alla realtà. Anche se, come diceva il fotografo statunitense Neil Leifer: “La fotografia non mostra la realtà, mostra l’idea che se ne ha”.

Al giorno d’oggi la tecnologia ci permette di avere sempre con noi una macchina fotografica, smartphone di ultima generazione che sfornano immagini ineccepibili, filtri e app che edulcorano il nostro mondo facendolo apparire irresistibile.

Questo è il punto focale: non ci accontentiamo più di descrivere l’idea che abbiamo della realtà, la dobbiamo plasmare. Rimandare all’osservatore la visione di un mondo bellissimo, di una vita di successo, di prodotti perfetti.

Viene da sé che quello che vogliamo vedere è inspirato da questo sentimento di perfezione, ma si tratta di un’influenza biunivoca, il mercato condiziona l’idea del consumatore, il consumatore esige immagini di un certo tipo per legittimare quell’idea.

La domanda che viene naturale è: “Tutto questo è negativo o positivo?”. Di per sé credo nella neutralità di queste dinamiche, è l’uso che ne facciamo che può avere un’accezione in uno dei due sensi. A fare la differenza è la consapevolezza che abbiamo riguardo questo fenomeno, se riusciamo a capire i meccanismi che vi si celano dietro, ne diventiamo padroni e non succubi. In caso contrario, continueremo a credere che quella che vediamo attraverso le immagini sia la realtà, lontana anni luce da quella che viviamo tutti i giorni e, per questo, anelata e rincorsa a scapito dell’unica crescita che possiamo fare, quella che parte guardando dentro e non fuori.