Il mostro è la sorgente. Non ha bisogno dell’eroe.
È l’eroe che ha bisogno di lui per esistere.

(Roberto Calasso, Le Nozze di Cadmo ed Armonia)

Pochi libri come Le Nozze di Cadmo ed Armonia questo straordinario scritto di Roberto Calasso del 1988 necessitano di decenni prima di poter essere veramente accolti e meditati, e non dico compresi. O almeno compresi in senso dell’etimo latino del termine: circondare, abbracciare (circum-prehendere), perché la conoscenza se è eros si muove anche come polemos.

Come scrive sul mito Roberto Calasso? Che mito canta? Domande più ardue di quanto sembrino in quanto il mito è creatura organica e metamorfica e mentre lo canti muta, reagisce al canto. E poi quale mito? Quella della Grecia arcaica o del neoclassicismo, che inizia già con Platone? Calasso ci dona una definizione di cosa sia il “mito” minimale ma preziosa:

Si entra nel mito quando si entra nel rischio e il mito è l’incanto che in quel momento riusciamo a far agire in noi.

(Le Nozze di Cadmo ed Armonia)

Il mito quale “canto incantatore”, vincolo magico, soglia e varco animico quanto dinamica dell’apparire. Una definizione che coglie del mito un suo carisma naturale di “metafisica esperienziale”, il suo nucleo misterico. Calasso mostra le profondità del mito, che il racconto e il rito a stento trattengono, e le indica, come e con Eraclito e l’Apollo di Delfi (Eraclito, frammento n° 93, Diels Kranz), in quella sacra rappresentazione indicibile che erano i Misteri: Creta, Eleusi, Samotracia, Lerna, Andania, Trofonio. Più che oracoli e santuari: sedi ancestrali di “messe in scena” dove il divino si mescolava in segreto con pochi umani eletti, appositamente preparati. Ma il raccontare il Mito proprio di Calasso non si centra sugli aspetti rituali e misterici, seppure ne alluda sapientemente e frequentemente ma possiamo dire che Calasso quale mitografo, e ogni vero mitografo compie operazione creativa, centra il suo “cantare il mito” su una polarità duplice che possiamo definire erotico-estetica, o, in altre parole: ierogamica-sacrificale.

Calasso da una parte ritesse il mito secondo “funzioni archetipali dinamiche” alla Gilbert Durant quali il rapimento di fanciulle regali o ninfiche da parte degli dei o degli eroi, e dall’altra medita sul mito quale processualità vivente e performativa incessante e inesausta dove non c’è alcuna interruzione fra fisicità e valorialità (Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, sulla semantica della freccia e dell’arco).

Ecco la sapiente rivelazione: il senso è nello sguardo, il senso è lo sguardo quale ierofanìa in dinamica. Se Hilmann spiega la sopravvivenza del mito greco nella forma di dinamiche psicopatologiche Calasso grazie a Dio non spiega nulla ma illustra il mito tramite il mito e mai lo tratta in senso di un relitto o di una nostalgia archeologica ma lo ridipinge come fosse un passo di danza che ancora aleggia nella nostra mente. Calasso “presenta” il Mito come forma persistente seppure metamorfica, colta in essenze latenti ma sempre agenti in una sorta di “fisiologia” della coscienza, di cosmogonia dello spirito. Non “mitologo”, cioè semplice studioso di antiche fonti letterarie su dei ed eroi ma “mitogono”, cioè voce che è scesa nel racconto quale agone contestuale alla sua materia.

Similmente Roberto De Maio parla di Pulcinella e della Sfinge nelle sue opere (Pulcinella. Il filosofo che fu chiamato pazzo; Cristo e la Sfinge, 2001), come fatti palpitanti, di fronte e dentro il proprio sguardo, fenomeni e processi non ancora conclusi. Calasso riesce ad esprimere l’inesprimibile del mito, cioè la sua aura iniziatica, traumatica, fatale. Il filo rosso che riannoda tutte le principali stirpi e vicende mitiche viene presentano negli amplessi e negli stupri degli dei e degli eroi.

Il mito quale canto di una sottesa “teologia sessuale”, di una “ierofanìa erotica”. L’estetica invece viene presentata quale “teologia della luce”, puro apparire che è Zeus. Il farsi delle cose è dato dallo stabilizzarsi delle immagini per cui la modernità inizia la lacerazione dall’Organico, dall’Olos, quando il simulacro, la copia sostituisce sacrificalmente l’assolutezza della singolarità del genius loci e della teofania o ierofania (sul rapporto tra genius loci e reiterazione degli oggetti sacri si veda Friedrich Nietzsche, Il servizio divino dei Greci, 2012). Queste due polarità rappresentano per Calasso la dinamica e la lirica all’interno di una “struttura fluida” del reale quale epifania di Ananke, di Nemesi.

Ascoltiamo il nostro autore:

Nell’era della pienezza di Zeus regnava la metamorfosi come statuto normale della manifestazione. Mentre nell’era già intaccata dalla profezia di Themis la realtà si irrigidiva, gli oggetti si fissavano...

(Roberto Calasso, La profezia che viene dalle ninfe, Adelphi, 2005)

Ecco perché il cantare il mito muta il reale quanto muto il mito stesso; per la natura metamorfica di entrambi. La genesi del mito è la genesi del reale e al primo livello abbiamo questi nomi femminili, senza volto, senza gesta ma presupposto di ogni impresa e di ogni vicenda. È la rete dell’esistente, il discorrere dell’essente che precipita in concrezioni segniche che manifestano quella Necessità che opera superiore agli stessi dei quali la corona di Prometeo, la ghirlanda di Teseo, la collana di Arianna e di Armonia. Emergono allora i logoi non scindibili dalla narrazione antica. Emerge una coerenza profonda non contraddetta dalla pluralità narrative come le potenze della mente e della natura non si contraddicono ontologicamente.

Calasso ritesse il canto anche tramite le tracce del tramandare talismani, reliquie, oggetti sacri e misterici come il Palladio, il peplo porpora di Dioniso, il bacile di Europa, la scapola demetrica di Pelope. Il mito è corpo, è, prima di tutto, un qualcosa che gli antichi non chiamavano “mito”, termine che rischia di indurre un senso di allontanamento dal reale, ma piuttosto “gloria”, “fama”, epos oppure “logoi hiroi” cioè “racconti sacri” come il “Discorso sacro” di Elio Aristide (Marcel Detienne, L’invenzione della mitologia, 1981), tutte espressioni quindi di un sentimento devoto e naturale verso gli dei. Calasso riconcilia la componente logico-discorsiva con quella poetico-proiettiva nel racconto degli eroi e degli dei. Le dodici partizioni dell’opera procedono come il giro del falco, come il mescolamento di Circe, mediante riprese, ritorni, apparenti divagazioni e intrecci che sfociano infine nel banchetto fra dei e uomini a Tebe, alle nozze del fenicio Cadmo con Armonia, la figlia di Ares e Afrodite.

Il taglio calassiano presenta due limiti. Il primo è proprio di ogni canto. È il limite di ciò che non è cantato. Ma l’epos e la poiesis di Calasso si rilevano così poietuticamente intensi da suggerire e far emergere nessi e relazionalità essenziali anche e proprio dove il testo tace. Il secondo limite è implicito nel focus attorno a cui ruota la riformulazione del Racconto. Se ci si concentra sull’erotico e sull’estetico, sempre a rischio di estetismo post-moderno come di pansessualismo freudiano, è ovvio che appaiono svalutate e svalorizzate le altre polarità del mito come quella eroica, dinastica e fondativa.

Certo, Calasso recupera in parte l’aura eroica nel suo splendido Cacciatore Celeste (Adelphi, 2016) ma il suo manifesto-capolavoro sono le Nozze di Cadmo ed Armonia dove tutto il discorso appare un risuonare del medesimo schema dinamico archetipale, cioè quello dato dalla possessione erotica, dall’invadere-irrompere del maschile-divino nella matrice femminile. Una visione spermatico-fallica. L’Hermes fallico delle brocche delle Antesterie riassume questo fondo panico e silenico che Calasso ritiene la matrice di ogni narrazione teofanica della prima Grecia. Calasso è un Plutarco non morale e non sistematico. Il suo ricomporre la visione ancestrale della Grecia arcaica è già operazione mitica in quanto sembra ripercorrere il movimento del ricomporre le membra di Osiride da parte di Iside. Ma il punto di vista di Calasso è nell’occhio di Horus, cioè il punto di vista del Cosmo e non di una o dell’altra potenza (Pia De Simone, Mito e verità. Uno studio sul “De Iside et Osiride” di Plutarco, 2016,). Iynx, Io, Europa, Arianna, Medea, Ipermestra, Ino, Semele, Elena, Penelope: il mito quale catena iniziatica nel sangue e nell’anima di fanciulle possedute e rapite. Calasso identifica il nucleo dei Misteri in una sorta di ierogamia erotica e sacrificale. Il trauma sessuale quale iniziazione.

Il rischio di tale approccio è un suo possibile modernismo riduzionistico, il perdere una visione spirituale autonoma rispetto al sacrificio cruento, oppure un rischio opposto dato dal generare involontariamente un sincretismo orizzontale che ruota attorno non tanto ad un Incidibile ma ad un Inconosciuto. Certamente Calasso tiene fermo uno dei pilastri del vivere greco: il soprannaturale è un fatto, una praxis, un’esperienza di cui il racconto appare ambiguo velo (Paul Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, 2005). Calasso è l’anti-Porfirio. Se Porfirio, discepolo di Plotino e suo continuatore, riallegorizza Omero trasfigurando-riducendo il mito in velo filosofico e morale, svuotando però il senso arcaico e sociale del racconto, già obliato al suo tempo, Calasso al contrario procede in senso opposto ritornando dal simbolo all’irrompere del fatto. Il simbolo viene ricondensato semanticamente: nel suo primo manifestarsi il simbolo è autodifesa degli dei dal destino. Difficile una definizione più audace e ancestrale.

L’ermeneutica di Calasso è un’ermeneutica dell’incontro, dell’alleanza, del segno. Ricorda “l’ermeneutica rivelativa” e il “circolo ermeneutico” di cui parla Gaspare Mura (Pensare la parola. Per una filosofia dell’incontro, 2001), liberi però da ogni eterodirezione dalla dittatura del Testo o del Significato. La rivelatività della teologia greca è una “rivelatività diffusa” in cui l’ermeneutica è coinvolta nel racconto e non può pretendere uno status autonomo (Simone Weil, La rivelazione greca, 2014). È l’essenza orgiastica del mito che impedisce una riduzione monistica di quella che resta sempre una “visione in movimento”. Il racconto è un equilibrio che presuppone sempre un previo eccesso di cui appare il precipitato. Per questo il simbolo perde ogni dimensione di ricezione, ogni spessore culturale per ripresentarsi ontologicamente, processualmente, quale epifania di Necessità.

La grandezza di Calasso non sta solo nel cantare il mito oltre la dicotomia logica fra vero/falso, quanto nell’eludere il tema della fede e della verosimiglianza nell’assunzione del racconto quale dimensione pre-verbale, quale gesto-visione in aiòn. L’accesso al divino si percepisce in senso quindi sciamanico, diretto, estatico come per gli incantatori iperborei e i primi “filosofi” presocratici (Giovanni Manetti, In principio era il segno, 2013) e il processo conoscitivo appare dialettico e reversibile come nel “romanzo oracolare” di Creso. L’archetipo greco è singolarità assoluta, quindi, può tornare solo nel rito e già nel canto si moltiplica come l’immagine in uno specchio spezzato. Le luci del racconto si stabilizzano in gesti e visioni più che in parole e discorsi. Il nostro autore ha anche il merito di averci dato il senso non solo dell’oralità dell’arcaico ma pure della sua irriducibile fattualità. È la luce che vela l’occulto farsi delle cose non l’oscurità. Le scelte dell’autore sono scelte radicali, volutamente arbitrarie ma nella loro nettezza e sicurezza confermano come il mito sia via di conoscenza e possieda sempre una “logica interna” di grande coerenza sotto la traccia di un apparente caos. Che Teseo sia figura apollinea è arbitrario. Chi scrive lo ritiene eroe posidonico, non apollineo. Ma non mostrano Apollo e Poseidone una fitta trama di relazioni e concordanze nelle loro vicende e nei loro carismi? Pure l’autore sembra non approfondire il senso delle stirpi femminili che appaiono nel rito negromantico all’Odisseo nel prato di Persefone, nell’estremo Nord. Ne accenna, con il suo tipico fascino allusivo, quasi subliminale. Ma quel suo eracliteo “dire e non dire” ci invita ad avanzare nel percorso cogliendo la regalità femminile quale matrice della regalità delle Isole, quale sostanza ninfica che regge l’intera Odissea quale ricapitolazione di tutti gli stati ontologici del mito.

Pure audace e arbitrario appare l’accostamento tra il verde di Pitone, la prima presenza sacra di Delfi, sessualmente ambivalente, e il verde dell’alloro di Dafne, prima ninfa amata da Apollo. Un verde che Calasso canta quale “allucinatorio”, come se le squame del serpente oracolare si confondessero con le fronde della fanciulla ninfica. Eppure, nulla nel racconto autorizza questo fascinoso isomorfismo. Si tratta di un nuovo “nodo”, di un nuovo allacciamento della tessitura del reale e del suo interno canto. Come se la fessura che è Delfi fosse un vivo archetipo sia femminile che monstruoso. Pure geniale è il suo porre un isomorfismo spirituale tra Hermes e Ganimede, seppure senza sviluppare tale intuizione che resta nel testo e nel ricordo come una pennellata, un colpo di scalpello.

Non si può tradurre una poesia! La genialità dell’autore va colta non solo nella sua ricapitolazione pan-ottica ma pure nelle fessurazioni che si possono cogliere chiaramente fra le righe della tavola dei riferimenti mitografici allegata al testo. Pure sapiente l’associazione di Elena al Palladio, in uno scambio vivo fra maschera e simulacro e l’avvicinare al nome di Elena l’immagine del fuoco della fiaccola, in quanto è lo stesso etimo di elainein ad indicare la devastazione per incendio (Dizionario Etimologico dell’Università di Trieste). Calasso innova il mito cantandolo, moltiplicandone le connessioni, come un musicista e compositore crea nuove musiche articolando in modo differente le sempre solite sette note, o uno scacchista non gioca mai la medesima partita. Eppure, i pezzi sono sempre trentadue e le caselle sessantaquattro.

Ma le connessioni si rivelano innumeri. Il mito è nexus, nodo, connessione, trama. Non di un discorso ma di un gesto, di una visione, della genesi di un rito, di un canto. La natura del mito ci appare così musicale, coreutica. Pure Calasso mostra audacia quando ritiene che sia Teseo ad iniziare Heracle e non viceversa, come sembra più probabile. Calasso non è mitologo, ma un teurgo, i cui il racconto è pelle relitta che risuona quale tamburo, quale nuova mitografia la cui grafica appare iniziatica. Occorre abituarsi alla sua scrittura, al suo pensiero, alla sua capacità visionaria. Nessuna nostalgia, né pura evocazione, ma presenza, come si parla di un parente, di un figlio, di un destino ancora in corso. Come dicevamo Calasso è prodigiosamente libero dall’ossessione razionalistica dello “spiegare” che è dispersione banalizzante, inutile in quanto non garantisce alcuna partecipabilità ma anzi la preclude. Calasso “presenta” il mito, pone innanzi delle immagini, come fosse la prima volta e nel ri-narrare oltrepassa Omero, Esiodo e tutti altri ultimi cantori. Quando descrive con Omero l’Elena ritornata a Sparta con Menelao non dice quello che indica, cioè che Elena si mostra quale epifania della madre Nemesi, ma lo lascia intendere, lascia luccicare la pelle tesa dell’imago.

Perché tra le tante tavole fra dei e uomini (Peleo e Teti, Tantalo, Licaone) sceglie quella di Cadmo ed Armonia? Lo dice lo stesso autore: Cadmo è fatale per la Grecia perché porta ai greci dalla fenicia l’alfabeto, che inizierà a far decadere il racconto in simulacro, irrigidendo la visione in convenzioni di segni. Attraverso il canto, corpo sonoro, e il gesto della visione, Calasso fluidifica il racconto provando a riattivare i sensi spirituali cadmei prima che l’alfabeto divenisse prigione. Il racconto ritorna comunque alla sua essenza di corpo. Perché il segno è corpo. Perché noi siamo corpo.