Non più di un mese fa ho raccolto una rosa bianca fiorita in inverno da un cespuglio vigoroso di una casa abbandonata. Profumo conturbante, bocciolo perfetto candido e sanissimo come se la neve del Monte Nerone, una delle cime più poderose dell’Appennino umbro-marchigiano, non le avesse neanche scalfito una foglia. Penso che sia una rosa con sangue cinese, uno di quegli ibridi moderni che conferiscono vigore e un leggero tono rossiccio dei fusti, la morbidezza del portamento e l’eleganza. Prendo così qualche rametto robusto per farne quattro talee, parti di pianta che servono a riprodurla, che mi auguro (con pochissime speranze vista la stagione troppo avanzata) possano radicare e poi dare nella stagione successiva qualche pianta nuova. Le osservo da un mese in una ciotola piena d’acqua e noto che molte gemme sono ora diventate germogli verdi di due tre centimetri. Sono germogliate tutte: “Evviva!”. Direbbe un’apprendista giardiniera, perché queste piccole talee ingannate dal calore e dalla luce hanno vegetato grazie alla capacità delle loro cellule di generare ciò che la loro memoria genetica gli consente, ma la stasi vegetativa invernale non ha concesso la crescita neanche di una radichetta, indispensabile per un futuro trapianto in terra.

Le guardo e penso all’importanza di quelle piccole, delicate e apparentemente deboli parti vegetali senza le quali la pianta non potrà mai rendersi autonoma e affrancarsi; la mente va subito a quante affinità la vita ci rivela quando ci confrontiamo con altri esseri come noi, tutti facenti parte dello stesso misterioso e imperscrutabile universo. La vita vegetale ci insegna con semplici meccanismi che il sistema radici-fusto-rami-foglie è stabile e duraturo quando è armonioso, un po’ come avviene per noi humana: quanto più siamo completi, attenti e vigili nell’ambiente in cui ci muoviamo, dormiamo, lavoriamo e respiriamo, tanto più la nostra esistenza prende vigore, significato ed è piena di interessi verso l’esterno e verso gli altri.

Ma chi sono gli altri? Esistono? O sono mere proiezioni di noi stessi in cui ci soddisfa specchiarci. Quanto siamo radicati nei luoghi dove viviamo abitualmente, magari da molto tempo? Leggendo l’ultimo libro di Emmanuel Carrère, Yoga (Adelphi, 2021), mi ha colpito la citazione che fa in un capitolo, dal titolo Non esistono adulti, di una illuminata Simone Weil: “Sono pochi, alla fine, a sapere che gli altri esistono. A essere, semplicemente al corrente dell’esistenza altrui”. Spesso mi arrovello, dovrei parlare di vortici della mente, ruminazioni a dire degli psicoanalisti, o vritti nella pratica dello yoga di Patañjali, sull’importanza delle relazioni umane e non solo, della qualità delle relazioni che riusciamo ad istaurare presi e attenti come siamo, prima di tutto, a preservarci da vicissitudini e congiunture della vita che potrebbero recarci sofferenza, noia, fastidi, insuccessi. E penso a quanto e come sia fondamentale vivere con quelle “radici” profonde per non rischiare di rimanere in un pala ghiaccio, pattinando da una parte all’altra senza capire, interpretare, sviscerare i luoghi, le città, le campagne circostanti e i territori in cui stiamo vivendo fisicamente.

Vivere qui o altrove, nelle città, spesso è indifferente, tanto ormai sono simili le une alle altre, svuotate di identità, con modelli di espansione urbanistica ripetitivi fatti di aree commerciali omologate e standardizzate da una parte all’altra del mondo. Il rischio di vivere senza radici, da outsider è ormai molto più alto di quanto si possa credere, perché tutto, il sistema organizzativo sociale del mondo è strutturato proprio per indurci a vivere come piccole cellule isolate le une dalle altre, spinte a soddisfare i propri bisogni soprattutto effimeri e riempire questi spazi di vita di innumerevoli cose, per lo più inutili benché apparentemente “indispensabili”. L’inganno è presto detto: tutte queste cose che ci richiede tempo solo pensarle, desiderarle e acquistarle, avrebbero secondo il pensiero dominante “la funzione di renderci più facile e comoda l’esistenza”. Ebbene questo assioma è assolutamente falso. Un esempio tra tutti, banale quanto evidente: la cosa più inutile che possiamo acquistare è uno spremi agrumi elettrico, oltretutto in plastica, se lo paragonate ad un semplice spremifrutta in vetro quest’ultimo sarà: meno ingombrante, facilmente lavabile (è un pezzo unico e non due o tre da assemblare), duraturo, ci permetterà di utilizzare e mobilizzare polso e avambraccio e non consumerà energia elettrica.

La stessa cosa vale per i nostri acquisti che da semplici atti necessari sono stati opportunamente trasformati in momenti di culto, di piacere, di socializzazione familiare, di ostentazione, di appagamento smisurato. La sobrietà è ora sbandierata come possibile e sana alternativa alla bulimia da acquisto, dal compulsivo desiderio di possedere un oggetto, un abito, un sapone, un orologio, in realtà era solo un normale e sano modus vivendi.

Senza l’aspirazione a vivere conoscendo nel profondo la realtà in cui si sta vivendo, accontentandoci di oggetti, cibo e vestiti che potremmo trovare in qualsiasi altra parte del mondo, dal centro di New York a Malindi, il rischio più terribile è diventare (o essere già diventati) quell’Homo consumens di cui parlava già molti anni fa Zygmunt Bauman nel bel saggio Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, riferendo delle società contemporanee in cui, venendo meno quei saldi valori di riferimento, il consumismo diventa uno degli elementi più dequalificanti. L’alibi più consueto e ricorrente di coloro che si sono assuefatti alla stringente macchina del consumo e dell’acquisto nei luoghi–non luoghi, spersonalizzati, immensi e ripetitivi, come unica alternativa giornaliera al lavoro e al famigerato fitness, è quello del tempo! La insidiosa e inconsistente scusa del non avere tempo. Ma quanto tempo viene volatilizzato, speso, sprecato nell’affidarsi a ricerche in rete, a guardare la vita degli altri nei social e nelle app, a condividere immagini, informazioni e dati completamente inutili? Se solo ci si fermasse un giorno per scegliere il rivenditore diretto di formaggi più vicino a dove viviamo, la cantina che produce il vino di cui potremmo vedere la vigna perdere le foglie in autunno, a rintracciare quel piccolo mercato di coltivatori diretti che ogni settimana ci diranno perché quest’anno i porri sono venuti più piccoli della produzione dell’anno scorso, o della fatica che hanno fatto a trovare il seme di farro per la semina autunnale, forse istaureremmo qualche sana relazione, risparmieremmo il famoso “tempo” che manca e guadagneremmo spazio in casa evitando di comprare cose inutili.

A proposito di tempo, spesso si sottovaluta quello speso a cercare cose tra scaffali immensi che disorientano, visto che soprattutto nell’alimentare i prodotti vengono cambiati di posto per nuove offerte, o per l’arrivo di promozioni stagionali, ma la risposta comune che si ha dal generale acquirente della grande distribuzione (di cui ho parlato in altre rubriche sul sistema che strozza i produttori con le aste al ribasso) quando lo si interroga sulle motivazioni dell’acquisto in quei luoghi è questa: “Almeno nei megastore trovo tutto e risparmio tempo e denaro”. Anche qui molte le obiezioni che si possono fare al riguardo perché acquistando tutto in un solo rivenditore gli svantaggi sono moltissimi in termini di qualità del cibo, dello spreco di denaro e dell’acquisto di packaging inutili e soprattutto in plastica. Con i grandi numeri, le grandi commesse è molto difficile poter mettere negli scaffali prodotti di piccoli agricoltori locali, di qualità, l’acquisto nei megastore disorienta al punto che sarà più facile dimenticarsi il necessario e acquistare il superfluo solo perché costa poco, ritrovandosi anche costretti a riempirsi di piccole vaschette trasparenti difficilmente riutilizzabili.

Il cosiddetto consumo critico è semplicemente l’acquisto mosso da reali necessità e non da ipnosi di massa nutrite da una comunicazione assillante che mette la materialità al centro, oggi che i luoghi di culto non sono più né la natura, né chiese, moschee o sinagoghe, ma i luoghi della merce. Questo è il segno più allarmante dei nostri tempi che hanno necessità impellente di un “risveglio” collettivo, per ricondurci al primigenio obiettivo per cui siamo nati: di essere liberi e capaci di discernere grazie alle qualità e le capacità del nostro spirito vitale e della nostra anima.