La dinastia Tang (600-900 d.C.) in Cina ci ha lasciato molte meravigliose poesie. Uno dei temi ricorrenti in queste poesie è il pellegrinaggio, un viaggio sacro alla ricerca di istruzione spirituale o illuminazione. E spesso questi testi ci comunicano un messaggio sorprendente: non c’è alcuna meta da raggiungere, il viaggio stesso è la meta e il pellegrino deve intraprendere un lungo viaggio solo per scoprire che già da sempre si trova là dove vuole arrivare.

Qui voglio commentare tre poesie di epoca Tang su questa tematica. Il cinese è uno splendido mezzo di poesia, in quanto i suoi caratteri posseggono vari strati di significato e sono solo minimamente vincolati da regole grammaticali o sintattiche. Sono simili a quelle gemme iridescenti che assumono un colore diverso a seconda dell’angolo da cui le si guarda. Ogni carattere rappresenta il nucleo di un’idea, o di un fascio di idee, e non la sua specificazione in termini di persona, genere, numero, tempo o modo. “I caratteri cinesi,” scrive François Cheng, “per via dei legami che li connettono alle cose e fra loro, costituiscono un sistema metaforico-metonimico. Ogni carattere è, in un certo senso, una metafora in potenza (1).”

Per mettere in evidenza la rete metaforica di cui Cheng parla, darò di queste poesie una traduzione letterale parola per parola. L’intenzione è quella di lasciare alle parole, nella misura del possibile, il libero gioco reciproco che hanno nell’originale cinese. Le loro immagini si librano in uno spazio liminale fra presenza e assenza. Possiamo comprenderle a vari livelli di rarefazione: nel loro centro cogliamo un bagliore di qualcosa come un vuoto luminoso, un vuoto creativo senza nome né forma.

* Jia Dao (779-843), Visita a un eremita non trovato:

Sotto il pino chiedere al giovane discepolo.
Dire: maestro cogliere erbe-medicinali partire,
Solo situato in mezzo a questa montagna,
Nubi profonde, non sapere luogo.

La visita a un saggio o a un eremita è un tema frequente nella poesia cinese. Spesso il pellegrinaggio è occasione di un’esperienza spirituale. Il viaggio stesso è una parte importante dell’esperienza. Possiamo immaginare che il visitatore sia venuto da lontano e a fatica si sia arrampicato sulla montagna. Il giovane discepolo, ancora solo un fanciullo (la parola che indica qui il discepolo vuol dire anche ‘bambino’), gli dice: il maestro è partito a raccogliere erbe medicinali, è da qualche parte in mezzo a questa montagna, avvolto dalle nubi, chissà dove. Molto semplice. Non accade quasi nulla. Il viaggio è stato invano. O forse no? O forse l’assenza dell’eremita è perfino più potente della sua presenza?

Una prima caratteristica che colpisce è l’assenza di pronomi personali. Non c’è un “io chiedo al giovane discepolo”, “lui risponde”: c’è solo un chiedere, un dire. La situazione archetipica prevale sulla ‘storia’, sugli aspetti personali dell’avvenimento. C’è una sorta di progressiva ‘rarefazione’ in questi versi. Precisamente la ‘rarefazione’ che il viandante è venuto a cercare sulla montagna. Anche se non si presenta come lui se l’aspettava: gli parla attraverso l’assenza.

La progressione: nel primo verso c’è ancora un luogo, una dimora umana, e avviene un dialogo. Siamo lontani dalla città; ma ‘sotto il pino’ è ancora in qualche modo una dimora, una dimensione protetta: è un ‘campo base’, al di là del quale c’è solo l’immensità della montagna. Il viandante giunto fin qui ha compiuto il primo passo. L’eremita (con la sua assenza) gli indica il resto del cammino. Nel secondo verso possiamo immaginarlo mentre si allontana su un sentiero, mentre parte con uno scopo: raccogliere erbe medicinali. Lo vediamo con gli occhi del fanciullo-discepolo rimpicciolire in lontananza: e possiamo immaginare che con la distanza si dissolva anche qualcosa dell’identità personale del maestro e dello scopo specifico del viaggio. Il maestro da solo sulla montagna, come i gatti a caccia di notte, è un’altra creatura, più selvaggia e misteriosa, rispetto al maestro che sta seduto sotto il pino.

Nel terzo verso maestro e montagna sono divenuti una cosa sola. Il maestro è ‘nel mezzo’ della montagna, in totale solitudine; e infine nel quarto verso restano solo le ‘nubi profonde’ che avvolgono la montagna, immagine della ‘mente vuota’, o per dirla in maniera più cinese, del ‘cuore vuoto’ dell’eremita. Non c’è più luogo, non c’è più identificazione, non c’è più scopo specifico: anche le erbe medicinali sono scomparse - hanno già operato la loro guarigione, per l’eremita dissolto nel cuore della montagna, ma forse anche per il viandante, che, nel contemplare questa assenza, comprende. Come in quest’altro pellegrinaggio:

* Liu Chang Qing (709-785?), Alla ricerca del monaco Chang del ruscello del Sud:

Durante il viaggio attraversare luoghi,
Nel muschio vedere tracce di zoccoli,
Bianche nubi circondare l’isolotto tranquillo,
Erbe profumate ostruire porta oziosa,
Passata la pioggia, guardare il colore del pino,
Superata la montagna, arrivare a una sorgente,
Fiore del ruscello manifestare spirito del Chan,
Uno di fronte all’altro, dimenticare parole.

Il viaggio è la meta: la trasformazione avviene in questo vedere tracce di zoccoli nel muschio, nel contemplare il colore del pino dopo la pioggia. Alla fine, uno di fronte all’altro, non c’è più nulla da dire. Il fiore del ruscello ha già detto tutto, ha manifestato lo spirito (o il significato, l’intenzione) del Chan (lo Zen per i giapponesi). Anzi, questo ‘uno di fronte all’altro’ non è neppur chiaro se si riferisca al viandante e al monaco o al viandante e al fiore. Non importa, è la stessa cosa.

* Chang Jian (708-765?), Al monastero di Bo Shan:

Limpido mattino entrare nell’antico tempio,
Luce del sole nascente sugli alti alberi,
Sentiero sinuoso conduce luogo tranquillo,
Sala di meditazione immersa fiori e piante,
Luce della montagna gioire natura di uccelli,
Ombra dello stagno vuotare cuore dell’uomo,
Miriade di suoni ecco completo silenzio,
Solo rimane il suono della campana di pietra.

Oltre alla determinazione personale, anche le specificazioni di luogo e di tempo nella poesia e nel linguaggio oracolare assumono un carattere fluido - e anche questo contribuisce a far prevalere la qualità esperienziale, la configurazione delle energie archetipiche sulla storia, sulla dimensione fattuale. Mentre entriamo nell’antico tempio di Bo Shan, è il mattino che entra: la nostra presenza è per così dire ridotta ai minimi termini. Due dimensioni, yang e yin, si incontrano e si sovrappongono: sopra c’è la luce del sole che bagna le cime degli alberi, sotto c’è il sentiero sinuoso che conduce alla tranquillità ombrosa della sala di meditazione. È l’esperienza di entrambe a determinare la qualità del momento.
Nel quinto e sesto verso l’incontro di queste due dimensioni complementari è esplicitato splendidamente:

Luce della montagna gioire natura di uccelli,
Ombra dello stagno vuotare cuore dell’uomo,

Possiamo leggere il quinto verso come “la luce della montagna dà gioia alla natura degli uccelli”, o anche “nella luce della montagna gioisce la natura degli uccelli”, e il sesto come “l’ombra dello stagno vuota il cuore dell’uomo”, oppure anche “l’ombra dello stagno si vuota nel cuore dell’uomo”, o “il cuore dell’uomo si vuota nell’ombra dello stagno”. Il contenuto immaginale abbraccia tutti questi significati. Ma c’è anche dell’altro. C’è una danza delle immagini nelle simmetrie dei due versi. C’è un’equivalenza dei termini iniziali e finali di ciascun verso:

luce della montagna natura degli uccelli
ombra dello stagno cuore dell’uomo,

dove la tonalità della prima equivalenza è data dal termine intermedio ‘gioia’, e quella della seconda dal termine intermedio ‘vuoto’ (quello stato di tranquilla contemplazione e silenzio interiore che è caratteristico della meditazione). L’ombra, il cuore e il vuoto si intrecciano nel secondo verso come nel primo la luce, la gioia e gli uccelli: il volo luminoso degli uccelli è la gioia della montagna, il cuore dell’uomo vuoto di pensieri è come questo stagno ombroso, liscio e silenzioso. I due versi si rispecchiano parola per parola:

luce ombra
montagna stagno
gioia vuoto
natura degli uccelli cuore dell’uomo.

In questo incontro, dello splendore luminoso della montagna e dell’ombroso stagno del cuore, improvvisamente si fa silenzio. La miriade di suoni che tace è anche il chiacchericcio della mente che si arresta. Il pellegrino è giunto alla meta. Resta solo una musica di pietra.

Eranos, 3 giugno 2001

Nota:
(1) François Cheng, L’écriture poétique chinoise. Un prezioso libricino sulla poesia Tang, da cui queste poesie sono tratte.