Vita di un “conservatore in un Paese dove non c’è niente da conservare”
Come il “quarto potere” possa, direttamente o indirettamente, influenzare politica e società l’abbiamo costatato anche nelle ultime vicende italiane con rivelazioni e “scoop” travolgenti, dagli effetti destabilizzanti per il nostro fragile assetto politico. Nella storia del giornalismo nazionale c’è un personaggio testimone assoluto e riconosciuto di come la carta stampata, e oggi, diremmo, quella on line, possa non solo condizionare, ma anche cogliere e anticipare il percorso e le scelte di una nazione: parliamo di Leo Longanesi (1905-1957). Romanziere, saggista, giornalista, grafico, pittore, fotografo, regista, editore ed imprenditore di cultura, colse e anticipò con sorprendente chiaroveggenza le tendenze del costume ed i modelli culturali dell’Italia che cambiava. Alcune delle sue definizioni e predizioni risultano ancor oggi, a distanza di quasi un secolo, di folgorante e preoccupante monito per l’attualità italiana. Vogliamo ricordarlo, avvalendoci anche, come filo conduttore, dei suoi celebri “aforismi”, quelle brevi massime di cui fu il più intelligente realizzatore contemporaneo.

Ribelle ed anticonformista anche per la sua origine (era nato a Bagnacavallo nel cuore della pianura romagnola, terra dai contrasti politici più accesi), aderì al Fascismo soprattutto per disprezzo nei confronti dell’"italietta" piccolo-borghese e per provocazione giovanile. Cominciò a scrivere su periodici fiancheggiatori, compilando un Vademecum del perfetto fascista che contiene il celebre aforisma “Mussolini ha sempre ragione!”, ma mettendo anche in mostra insofferenza per ogni aspetto retorico e monumentale del regime, giudicato affetto da un “male letterario, sottile, contagioso, impalpabile: il dannunzianesimo”. Il suo primo importante periodico, L’Italiano, uscito nel ’26, rivoluzionò lo stagnante panorama giornalistico italiano, piatto e anacronistico: “Meglio è parlare dell’autostop, del Palmolive, di Buster Keaton, della penna Parker…” e sperimentò l’importanza delle immagini: “Le illusioni ottiche guidano la nostra civiltà”. Grande successo, arrivando fino a centomila copie, ebbe anche il successivo rotocalco Omnibus (chiuso a malincuore nel ‘39 per ordine dello stesso Mussolini, pressato dal ricatto e dalle invidie di alcuni gerarchi) che incrementò l’uso della fotografia, politica ma anche erotica e mondana e richiamò collaboratori come Buzzati, Montale, Malaparte , Moravia e Vittorini.

Il crollo del fascismo e le vicissitudini del biennio ’43 - ’45 provocarono in lui, come in tanti altri intellettuali, un cambio di rotta un po’ sospetto: “La nostra coscienza è un grande impedimento, ma poi ci si accorda sempre con lei, come col fisco”. Riparato a Napoli e poi a Roma, pur nutrendo scetticismo nei confronti del CLN e del nuovo quadro politico-istituzionale, cercò un appoggio, tra i “vincitori”, che gli permettesse di continuare la sua attività editoriale-giornalistica, pare che ci siano stati contatti col PCI: si “annusarono” ma non si piacquero. Questa crisi di astinenza lo spinse a cercare nuovi filoni e, fiutando il clima permissivo instaurato dagli alleati, ecco allora uscire Flirt, rivista di varietà sulla scia dei periodici di “pin up” americani e corredata di una rubrica di “consigli intimi” per un pubblico maschile adulto, aprendo la strada anche in Italia al rotocalco erotico: “La moda e l’amore procedono nel tempo tenendosi uniti col dito mignolo, e vi accorgerete di essere invecchiati quando, a chi vi chiede a bruciapelo informazioni sulla biancheria femminile, non saprete più rispondere con sicurezza. Ogni uomo, infatti, è legato ad una particolare biancheria muliebre e a quello si richiama nel patetico ricordare i passati amori”.

L’occasione che lo riportò nel pieno delle sue funzioni di comunicatore e organizzatore culturale, gli fu offerta dall’industriale milanese Giovanni Monti, in collaborazione col quale fondò la Longanesi & C., casa editrice in perfetta linea con l’anticonformismo e il fiuto per gli “affari” del giornalista romagnolo. Pubblicò, infatti, autori politicamente scorretti o comunque “pericolosi” come Nietzsche, Sombart, Grosz, Bernanos, Huxeley, Russel, Peyrefitte o nuovi talenti italiani come Flaiano e Berto e un suo stesso rivoluzionario romanzo, Una vita, dove l’immagine sostituisce quasi completamente la parola, ma curò anche una collana di “gialli proibiti” con solleticanti e colorate copertine osé. L’essere rientrato a pieno regime nell’agone editoriale, lo fece diventare una figura-chiave nella campagna delle elezioni del ’48, dove abbracciò la causa della DC, non per convinzione ideologica, ma perché vedeva nel partito di De Gasperi l’unico forte baluardo contro il Fronte Popolare: “Ho abbracciato la causa dei padroni e morirò combattendo per quella, perché sono padrone anch’io”. Il successo editoriale e l’intuizione di non lasciarsi intruppare in uno schieramento politico lo convinsero a ritentare l’azzardo di un nuovo periodico, Il Borghese, che nascerà nel ’50, con la collaborazione di autori come Prezzolini, Savinio, Montanelli e Spadolini.

La linea del quindicinale, poi diventato settimanale, era dichiaratamente di “destra”, una destra critica, che vedeva nel comunismo internazionale il pericolo più incombente, ma disprezzava l’imbelle classe politica dirigente uscita dal ’48: “La nuova classe dirigente è così cretina che non ho nulla da rimproverarmi del mio passato” e strizzava l’occhio anche ad atteggiamenti di ribellismo anarchico e di critica alla modernità tecnologica. Sempre pronto a cogliere le novità e le anticipazioni della società, collaborò, a partire dal ’52, con Mattei e l’ENI per una campagna pubblicitaria, ma soprattutto per una nuova testata, Il garofano rosso. Questo nuovo periodico, in pratica, apriva la strada alla futura politica di centro-sinistra; Mattei e la parte più lungimirante dei democristiani capivano, infatti, che l’era del centrismo e dello scontro frontale era finita e all’Italia, che usciva dall’emergenza, era necessaria una forza politica che fornisse alla DC un partner laico e socialdemocratico. Ecco, pertanto, la necessità di sdoganare il PSI e di favorirne una politica autonoma dai comunisti: questo fu il compito che assolse Il garofano rosso, ma la collaborazione Mattei-Longanesi andò anche più in là, prefigurando quel fondamentale quotidiano dell’Italia del miracolo economico che fu Il Giorno.

Dopo l’infelice tentativo di creare un suo movimento politico, che avrebbe dovuto chiamarsi La Lega dei Fratelli d’Italia, Longanesi si sentirà ancora più lontano da un mondo sempre più “omologato”: “Quel che seduce le masse è l’immagine del peccato, la fotografia a colori o la descrizione di crude scene sessuali”e “Sfogliando i nostri giornali a rotocalco, sorprende l’insistenza con cui ripetono le stesse cose… S. Loren, Alì Khan, Rita, Coppi, la Dama Bianca…”. Abbandonato dal suo industriale finanziatore: “Non è mai apparsa una classe di grossi padroni tanto inetta, tanto pavida, tanto volgare come quella che oggi vive a cavalcioni dell’Italia” e alle prese coll’altalenante diffusione de Il Borghese, si spense, proprio nella redazione della sua ultima creatura, nel settembre del ’57: “E’ un peccato vivere quando tanti elogi funebri ci attendono”.

Ideologia di un profeta di sventure
Il grande polemista romagnolo non era un pensatore sistematico, anzi, affermava: "Il contrario di quel che penso mi seduce come un mondo favoloso", perciò non possiamo esigere da lui un percorso ideologico consequenziale, ma quegli sprazzi, quelle intuizioni, quelle folgorazioni che l’hanno reso antesignano di un giornalismo corrosivo e impenitente. Lo stesso, poi, che da lui è sceso fino a Montanelli e Travaglio, che gli hanno riconosciuto il ruolo di maestro. Negli anni giovanili, come abbiamo visto, assunse l’atteggiamento del guastafeste, del provocatore (forse anche in virtù di sue frequentazioni nietzschiane e soreliane), ma si sforzò di trovare un’identità italiana nella fusione tra la tradizione cattolica reazionaria (con la riabilitazione dell’operato di Pio IX), la cultura rurale strapaesana e il filone patriottico risorgimentale: “E’ meglio vivere a sbafo della tradizione che voler vivere creando cose estranee alla tradizione.”.

Si pose pressantemente il problema di quale classe avrebbe potuto portare avanti questa “rivoluzione conservatrice” e si accorse che in Italia mancava una vera borghesia: “La borghesia non ha idee: essa vive di abitudini”, cioè una classe capace di promuovere un coerente progetto politico di destra: “La destra? Ma se non c’è nemmeno la sinistra in Italia!... ogni posizione ferma e definita è intollerabile… qui si vive alla giornata, fra l’acqua santa e l’acqua minerale”. Questa intelligenza penetrante e spietata fece emergere in lui uno scetticismo rassegnato che lo portò a cercare e a trovare nei nuovi mezzi di comunicazione di massa – che lui stesso aveva sperimentato con tanto successo - la nascita di un cambiamento antropologico epocale: “Il film ha compiuto una rivoluzione più profonda di quella di Lenin: ha ucciso persino gli ideali ribelli del romanticismo operaio.”. E, con accenti “prepasoliniani”, prosegue: “Il proletariato… aspetta l’automobile, la casa a rate, la radio, il televisore… il comunismo è finito, perché il comunismo era una grossa faccenda rivoluzionaria che chiedeva sacrifici…”.

Ecco, allora, riaffiorare in lui la nostalgia della sua terra di Romagna, dove i “rossi” “conservano vecchie abitudini, e pregano vecchi santi; e cucinano l’anguilla come ai tempi dell’esarcato… il popolo ama i colori. E quando di colori ce ne sono tre, sceglie quello più sgargiante, sceglie il rosso…”. E’ un processo a ritroso che lo spinge a ritornare alle origini, in un mondo crepuscolare, quasi pascoliano, dove il ricordo fa da antidoto alle amarezze e alla pazza frenesia del suo attivismo esasperato e del suo “cinismo” conclamato, sbocciando in questa intensa confessione: “Nella vecchia casa dei nonni, dove io sono nato, si conservano ancora sotto campane di vetro i pettirossi… là io sono cresciuto. Là ho letto le vite dei grandi briganti… là ho bevuto il primo bicchier di vino… La mia famiglia è stata la mia scuola, e quel che so, quel che non so, i miei vizi, i miei difetti, le mie poche virtù li ho tutti ereditati. E più gli anni passano, più mi accorgo di non riuscire a mutare la strada segnata…”.